Imperfetta Ellisse

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Domenica, 20 dicembre 2015

Klaus Miser - Non un paese per poeti



Klaus Miser - Non un paese per poeti - Ed. Prufrock 2015spacer

Non so chi sia davvero, a parte ci che mi viene dalla sua scrittura. Ma certo Klaus Miser prima di tutto un'identit o un eteronimo (il che lo stesso), pi che uno pseudonimo letterario. E ci significa, e mi pare utile dirlo fin da subito, almeno una certa contiguit, niente affatto scontata, tra essere e poetare, una qual sovrapposizione o indissolubilit militante (ma s, usiamo questo termine arrugginito). Insomma "Klaus" non un alter ego e nemmeno un doppelgnger di s stesso, non un'entit che sta dietro o procede a lato, sebbene nella sua scrittura si percepisca una inquietudine perturbata.  Non un caso,  mi pare, che l'esergo del libro reciti "I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo" (Wittgenstein), ma bisogna dare a "linguaggio", aggiungo io, un senso esteso, anche nella direzione di un superamento dei generi e delle forme artistici. Tutto, in questo linguaggio/mondo, compreso, "nonostante me" dice l'autore nella nota iniziale. Miser   semmai - quindi - un simbionte tanto ben adattato a una certa modalit poetica quanto critico verso la realt che attraversa. Una  posizione in cui con ogni evidenza alla fine finisce per credere.

Organizzato come un acrostico espanso, anzi - dice il sottotitolo - "un errare britannico in forma di acronimo"  (le lettere che compongono il titolo sono anche capilettera delle sezioni) il libro esplora una serie di esperienze girovaghe, di erranze tra nebbie diverse, quella padana quella londinese, ricostruite attraverso un montaggio  serrato e veloce che tiene conto non tanto della prosodia o di una ipotetica economia del verso, che per Miser ha poca importanza, quanto piuttosto del fotogramma, dell'efficienza dell'immagine selezionata (o che si lasciata selezionare) rispetto al quadro complessivo del testo, l'emersione di un qualcosa dalle nebbie di cui si diceva. Non vorrei tornare ancora sul discorso del frammento fatto pi volte, e che lontano da questo tipo di scrittura, invece pi simile ad un flusso osmotico innescato da una necessit (s, qui il vocabolo appropriato) di riportare alla luce, di verbalizzare, qualcosa di pi profondo, in una serie di schegge, di acute fitte versificate. Da questo punto di vista ha certo ragione Alberto Cellotto quando afferma in una sua nota (v. QUI): "accade infatti che il ricordo viene al mondo con la poesia e non accade che un ricordo sia, pi genericamente, il punto di partenza di una poesia (che poi, a ben interrogarci, dove stia il "punto di partenza" di una poesia un aspetto davvero misterioso...)". Incontri, incroci, personaggi borderline e molti, molti paesaggi attraversati, accennati, descritti anche con nostalgia, molte similitudini, molti "come" assai creativi che mi rammentano la passione che ne hanno le poetesse americane, molte situazioni in cui si allude a disagi striscianti o conclamati, stanze illuminate da una luce scarsa e radente che sbatte contro oggetti insieme insignificanti e minacciosi quanto la macchina da scrivere di Burroughs (ricordate Il pasto nudo?), fastelli di nomi e cose ("unorbita una confusione e un nonsense / un io e un non io / una sigaretta un soffio un the e il bottone / il suono e linferno / una calotta una culotte...") e qua e l pennellate di colore (un "pantone", dice il poeta) in funzione forse di richiamo vitalistico o tratto, inamovibile e forte, di quelle  emersioni di cui si diceva (e in effetti uno dei motivi questo scambio tra luce e ombra, tra interno ed esterno, tra grigio e colore). Incidentalmente, non un caso che abbia parlato di emersioni: questo montaggio (a tratti potenzialmente intercambiabile all'interno del testo e tra i testi) raggiunge bene l'obbiettivo che si prefigge, poich l'insieme (e credetemi, non una cosa banale) pi della somma delle sue parti, per dirla in termini di gestalt. Come ogni atto artistico, del resto. La scrittura di Miser senza dubbio lirica. Certo con le sue contaminazioni, i suoi innesti linguistici (citazioni, vocaboli stranieri, brani di testi di canzoni) in chiave modernista (piuttosto che post-), e magari c' qualche cosa sopra le righe, qualche calco beat (e non solo qualche citazione), qualche posa cosmopolita. D'altra parte, qual' il paese che non per poeti? il nostro probabilmente, e non solo per ragioni diciamo cos sociali, ma anche perch distante dalla cultura  che appare continuamente nell'infratesto, attestata anche dalla dichiarazione esplicita dell'autore ("Nel testo scintillano isolati versi di T. S. Eliot, J. Dos Passos, M. Foucault, A. Ginsberg, J. Kerouac, P. Vicinelli e E. Villa", e gli unici due italiani omaggiati non sono certo organici a questo paese poetico, mi pare), un panorama come visto dall'altra sponda dell'oceano, con le spalle rivolte a casa. Ma certamente   anche per questa cultura che si tratta di un particolare impasto lirico, una rabbia lirica potremmo dire, che non vuole cio rinunciare ad un continuo dibattito, all'interno del testo, tra espressione e impressione, tra elegia e rigetto, al centro del quale si pone come arbitro un soggetto esposto, non mediato, anzi per molti versi attoriale (Miser da quel che so agisce anche in campo performativo). Se c' un vago rischio in questo tipo di approccio forse quello del compiacimento, della ruga che attraversa la fronte corrucciata. Ma nel flusso, anzi nella fluidit volutamente un po' singhiozzante che ricerca Miser ci pu stare, fa parte del gioco, rientra in quella assunzione di rischio, sostanzialmente onesta, a cui fa cenno anche Cellotto nella sua nota, di dire, di poetare senza stare a pesare troppo le parole. Un libro interessante, sono curioso di vedere, se ce ne saranno, le prove future. (g.c.)


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Luned, 9 novembre 2015

Enrico Barbieri - Provincia



Enrico Barbieri - Provincia - Giuliano Ladolfi Editore, 2015spacer

Di Enrico Barbieri ho gi scritto qualcosa (v. QUI), in occasione del suo libro "Il tremore della terra", edito da CFR nel 2014. In quella circostanza avevo espresso delle perplessit, che riguardavano soprattutto una certa discontinuit, e forse timidezza o ritrosia nel dire, che dava un andamento rapsodico al libro.
Torno sulla scena del "delitto" con questo secondo o forse terzo libro soprattutto perch sono convinto che, a differenza di molti, Barbieri nella poesia ci creda, non sia un atteggiamento e nemmeno una mera necessit (concetto quanto mai ambiguo). Dalla prima impressione mi pare che alcuni "vuoti" siano stati riempiti, segno che Enrico qualche riflessione l'ha fatta, e un minimo si messo in discussione. Vuoti che non erano tanto "orizzontali", cio determinati da una ispirazione vagante tra le occasioni, quanto piuttosto "verticali", ovvero dovuti ad uno scavo (come si diceva una volta) ancora molto da fare su quella stessa ispirazione. C'era insomma, secondo me, la necessit di andare pi a fondo, non solo nel materiale da trattare, ma anche nella stessa scrittura.
Credo che Enrico l'abbia fatto, magari prendendo un po' di petto quella materia. Ricordo che tra i commenti al post del febbraio scorso, Davide Castiglione aveva accennato, tra le altre cose, a un certo "maledettismo un po' autoriferito", cio, se avevo ben capito, qualcosa di "posato", una rabbia un po' torva ma "da poeta" nei confronti di un dolore ingiustificato, immeritato e  dalla responsabilit generica e sfumata. Per la verit non ne avevo visto molto, in quel libro, forse perch Barbieri non ce l'aveva messa quella rabbia (ma una "rabbia di razza", come dice adesso), o non ne aveva messa abbastanza. Ma credo che anche in quel caso si trattasse semplicemente di una ritrosia non ancora passata all'esame di un pi consapevole lavoro poetico. 
La verit che nessuno, davvero, ha un'idea chiara del reale vissuto di un autore, a meno che non ci si metta a fare un lavoro d'indagine che nessuno oggi fa pi. Difficile dire, alla fine, se quello che ci colpisce la "verit" o solo qualcosa di ben recitato (non dimentichiamo che Barbieri ha anche esperienza teatrale). Resta il testo, e la lingua con cui scritto. Che poi tutto si riporta alla  lingua, che deve essere personale (e quella poetica pi che mai), e a ci che da essa traspare. Dico questo perch, a differenza del precedente, in questo libro mi pare di vedere una diversa cognizione, una messa a fuoco del cosa e del come, in altre parole una misura. Che non smorza per la vis, la nota dolorosa ma non dolente, il sentimento della mancanza di senso in molti accidenti della vita, l'incapacit di salvezza per s e per chi si ama e anche l'incazzatura, questa s, per una realt sociale sempre pi disfatta, una provincia pavese che non solo geografica ma anche specchio di una marginalit dell'individuo, di una provincia dell'anima. In effetti non c' distanza, a ben vedere, tra le tematiche che impregnano questo libro, che brevemente individua Giulio Greco nella prefazione, tra la dolorosa ma quasi rassegnata osservazione della moglie malata (certo i testi pi "forti" e commoventi) e quella niente affatto rassegnata dei mali, descritti anche con sarcasmo, della societ locale, tra il tratto lirico di certi richiami naturalistici e la descrizione icastica, in funzione di simboli, di personaggi incontrati tutti i giorni. Tutto rimanda alla fondamentale solitudine del singolo, certo esistenziale, ma anche direi come unit politica disorganizzata, o forse consapevolmente anarchica, o di dropout per scelta, a cui la figura dell'autore - "in parte un pazzo in parte normotipo" -  tende a sovrapporsi (ma non voglio certo dire che in lui la poesia sia vita e viceversa). E' in questo senso dilatato che interpreto la "provincia" di Barbieri.
Quel che interessante che tutto ci non ha bisogno di circonvoluzioni sintattiche, di torsioni, di ricorsi all'indefinito, di lessico ricercato, n di metri o forme particolari. Il discorso diretto, anche apodittico, e perci, per dirla in soldoni,  tutt'altro che crepuscolare, il verso libero, e la vena mi pare aperta. Se il livello emotivo continua ad essere controllato, come se Barbieri volesse stabilire una superiorit e una distanza "autoriale", mi pare invece che sia stata abbandonata una certa "oralit" di cui avevo parlato la volta scorsa, che questa cio sia una poesia che non cerca tanto la scena (in senso metaforico) quanto la comunicazione as is, cos com', senza tante storie, senza stare a cercare tra le tante parole, come gli avevo scritto in privato, quella "giusta", ma senza tuttavia tralasciare di dare un corpo, un nome, alle "cose". Certo, niente di innovativo in una poesia di questo tipo, semplicemente perch non ce n' bisogno. Ma secondo me ha, pi di tanta poesia "civile", una concretezza che un po' oggi si persa e che bene ritrovare ogni tanto. E che cerca, come avevo suggerito ad Enrico, di rispondere alle domande: che cosa voglio dire? e come? Che non mica poco. (g.c.)


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Marted, 3 novembre 2015

Danilo Mandolini - A ritroso



spacer Danilo Mandolini - A ritroso, versi e prose 2010-1985 - Edizioni L'obliquo, 2013

Con i tempi che corrono, segnati anche in poesia da una fretta eccessiva  con conseguente produzione di rachitiche plaquettes, d una certa soddisfazione tenere tra le mani questo volume di circa  230 pagine, in cui Danilo Mandolini, noto ideatore di Arcipelago Itaca, raccoglie una selezione della sua produzione poetica tra il 1985 e il 2010, ma organizzata appunto, diciamolo subito, a ritroso, in un excursus rebours a partire  dalla produzione pi recente fino a quella di esordio, pi qualche inedito. Il tutto diviso in nove sezioni, comprendenti anche brani in prosa, e preceduto da una prefazione di Fabio Franzin.

Per quanto sia perfettamente lineare e articolata su un vocabolario tutto sommato essenziale, la poesia di Mandolini reclama una buona dose di attenzione e di compartecipazione al testo da parte del lettore, per alcuni motivi, sostanzialmente legati tra loro:

anche quando pi liricamente distesa, la scrittura di Danilo ha un notevole grado di astrattezza, intendendo con questo la capacit di portare il dettato verso cieli pi alti, verso il simbolo e/o la metafora, verso l'interrogazione anche dolente, anche perplessa, sui caratteri universali dell'esistenza. Il lettore in questo senso chiamato a leggere e ad interpretare non tanto e non solo l'intuizione poetica, la percezione, o magari il guache naturalistico (che qui peraltro non c'),   quanto e soprattutto il pensiero, il porsi anche psichico dell'autore nei confronti della vita. Una poesia perci classica, nel senso di avulsa da quella contemporaneit parcellizzata che angustia tanti poeti di oggi, e da avvicinare semmai, come nota giustamente Franzin, a uno sguardo "leopardianamente legato alla riflessione";

vi poi, a mio avviso, un certo decentramento del soggetto (con qualche eccezione nelle poesie pi vecchie), nel senso di una collateralit dello sguardo e del suo essere centrifugo, ovvero proiettato spesso verso un metaforico orizzonte lontano che il pensiero tenta di attingere. Tuttavia il soggetto, che nel dibattito attuale - forse un po' artificioso - ha preso il posto dell'io, lirico o non lirico che fosse, il soggetto - dicevo - occupa costantemente la scena con una presenza totale, e lo fa non tanto come semplice presenza/proiezione  dell'autore (ovvia) e nemmeno tanto come soggetto inconscio che non pu smettere di pensare all'ineluttabile, quanto come soggetto meditante, ovvero padrone ed eroico interprete del senso, per quanto esso possa essere  arduo da afferrare per l'uomo;

c' inoltre una scarsa presenza delle "cose" (a parte forse nelle giovanili), di quella materialit comune che molti lettori trovano confortevole, cose che possano riguardare l'ambiente circostante o i luoghi e gli oggetti del quotidiano. o la collocazione nel tempo o nelle stagioni. E se le "cose" ci sono hanno spesso la funzione delle architetture in un quadro di De Chirico o degli scarsi oggetti in uno di Hopper ("oggetti nascosti alla vista"), dato che non di rado svoltano subito in senso metaforico/simbolico ("Il letto del fiume in secca che si segue / alla caccia del profitto e delle tracce /  di quelli di noi che sono gi maceria"). Una caratteristica che fa da sponda a quanto detto prima riguardo all'astrattezza, precisando ancora che questo termine non va inteso in senso neutro, avendo non poco a che fare con la qualit indiscutibile delle poesie e dei brani del libro. La correlazione tra ispirazione  (termine generico che andrebbe rovesciato) ed espressione  procede quindi non per suggestioni o ammicchi ma quasi esclusivamente per mezzo del linguaggio, a cui Mandolini rivolge un rispetto particolare nell'economia di suoi testi;

i quali, aggiungiamo anche questo elemento, hanno una prosodia organizzata per lo pi in un discorso ipotattico (che in qualche caso copre l'intero testo), scandito spesso da classici endecasillabi battenti, ospiti fissi del libro, e che contribuisce ad esprimere il senso di un pensiero fluido e articolato (e a volte assertivo) che chiede attivamente al lettore di essere condiviso.

Parlando di questo bel libro, a cui uno scritto come questo non rende certo piena giustizia, non voglio per dare l'impressione di volermi tenere alla distanza nel considerare la poesia di Mandolini anteponendo notazioni che potremmo dire tecniche. In realt invece a me pare che serva cercare di rendersi conto, magari sbagliando, di certe meccaniche che azionano la sua scrittura e, in definitiva, la sua poetica. Insomma, perch tutto questo, allora?  Se il modo (non tanto la forma) risponde al contenuto, come talvolta succede, in questo caso perch sono le tematiche, rivolte a nodi fondamentalmente trascendentali e universali, a "scegliere" per cos dire la sostanza del linguaggio. Mandolini parla in sintesi di vita e morte, di prospettiva nebulosa, di incertezza del futuro (sempre in termini esistenziali, non certo economicisti) ecc. La vita innanzitutto come componente essenziale della morte, come ragione e radice, di una morte nostra e altrui (compresa quella delle morti per guerra, come nella sezione "La linea del fronte"), precedente (come quella del padre nella bella sezione "Radici e rami") e successiva e futura, che il tema principale della scrittura di Mandolini. Antagonisti che sono indivisibili perch intrinseci e complementari, insieme ad altre coppie che anche Franzin rileva, come quella tra luci ed ombre (un'oscurit assai significante) che baluginano in  molte delle poesie presenti nel libro, o la naturale contrapposizione tra chi se ne andato e il superstite, con l'amarezza vagamente colpevole di chi rimane a custodire qualcosa di altrettanto vago e come fermo nel tempo in un qui e ora sisifeo che tuttavia avr fine, una specie di memoria volatile e non trasmissibile in eredit se non forse con la parola scritta. Che per non e non vuole essere n sapienziale n pitica, rimandando fermamente ad un destino gi segnato, ma certamente vuole essere aderente quanto pi possibile all'ineffabile, se mi si passa l'ossimoro. Quello che il modus di Mandolini cerca, anche con il citato ricorso a stilemi tradizionali, di dare un ordine (e una direzione, che non sia meramente lineare) al disordine di cui soffre la vita e la stessa memoria, riempiendo di parole gli interstizi del vuoto. E' forse questa la ragione della scelta di uno stile complessivo che, salvo poche variazioni e cambi di tonalit, si mantenuto intatto per un venticinquennio, tanto che in realt impossibile, anche sulla base di una difficile analisi filologica, assegnare un prima e un dopo ai testi, a parte certamente quelli pi giovanili, e questo contribuisce ad una radicata impressione di compattezza stilistica, di una voce che si esprime in sicurezza all'interno di un canone collaudato. Lasciandoci nella ragionevole previsione che dopo essersi guardato indietro, e dentro, Mandolini torner a guardare avanti. (g.c.)



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Luned, 28 settembre 2015

Marina Pizzi - Plettro di compieta



Marina Pizzi - Plettro di compieta - Lietocolle 2015spacer

Compita, nella Liturgia delle Ore della Chiesa cattolica, l'ultimo atto di una giornata di preghiera, dopo i Vespri. Si recitano salmi e si cantano inni prima di andare a dormire. Domani un altro giorno, e si ricomincia da capo. Ma se per caso il domani non dovesse arrivare, l'anima sar salva. E' dunque una metafora del compimento di una vita ammodo, almeno dal punto di vista dell'anima, cominciata con il mattutino, all'alba, una specie di ri-nascita.

Non so se Marina Pizzi avesse in mente qualcosa del genere quando ha raccolto questo libro, pensasse di "suonare" a modo suo,  col suo plettro, una parabola che si avviasse a qualche compimento. Ho qualche motivo per dubitarne, come pure del fatto che in questa poesia lei intenda trasfondere  una serenit benedettina. Non escluderei invece una vaga allusione a qualcosa d'altro, una pietas di substrato che dovrebbe essere di ogni poesia. In fondo le speculazioni sui titoli espongono a qualche pericolo di misunderstanding, proprio come avviene in finanza. Mi sembra invece pi significativo il sottotitolo, "Novantanove poesie 2008-2014", che credo racchiuda un paio di indicazioni, una sul carattere di "raccolta" o canzoniere, abbastanza insolita per Marina, che a sua volta stabilisce dei confini temporali, un prima e un dopo; l'altra sul costante fascino che i numeri hanno su di lei (quel "novantanove" ammetto mi ha fatto sorridere), con la loro infinita serialit (e infatti non vale dividerli in quattro sezioni come in questo libro) e - infine - l'eternit che racchiudono in s.   Spessissimo infatti i suoi libri sono un insieme di testi numerati secondo la serie cardinale che lasciano sempre una sensazione di work in progress, di qualcosa che termina solo momentaneamente. Del suo stile, della sua scrittura, del suo sistema metaforico e immaginativo ho scritto in diverse occasioni ( possibile recuperare quegli interventi, che vi invito a leggere,  tramite questo TAG), e qui aggiungerei solo alcune cose. di rinterzo.

Per quanto possa apparire strano, per me e per chi conosce Marina, la prima cosa che risalta la vena lirica che attraversa tutta la raccolta,e mi pare che le poesie che ho scelto lo dimostrino. E' apparentemente qualcosa di inedito, che tuttavia tornerebbe con quello che si diceva del titolo, cio come un modo di ripensare le cose sul far della sera (e a ben vedere questa vena, molto ben mimetizzata, riscontrabile in tutto il suo lavoro). Mi pare nel complesso che la nota agra e "arrabbiata" che persisteva nella poesia di Marina, la sua diuturna lotta con il mondo, con il malessere del vivere, con le delusioni e le perdite,  in questo libro si siano variamente mitigati, non per rassegnazione ma forse per una diversa coscienza di un limite intrinseco alle cose, alla vita stessa contro cui alla fine inutile continuare a sbattere, per il riconoscimento di una qualche sensatezza nelle cose che accadono, di una loro leggibilit. Certo, il linguaggio continua a richiedere al lettore la dovuta attenzione, continua la lotta di Marina con le parole per  estrarne con certa violenza l'indicibile, anzi per addossare ad esse una ulteriore significanza, una responsabilit, forse una colpa; continua il coagularsi dei testi intorno a parole feticcio (animula, ascia, gerundio, cipressi, meringa ecc. che non di rado rimbalzano da un testo all'altro, e a volte deragliano) e in brevi ma intense immagini in cui l'occasione (l'ispirazione) si contorce in visioni spesso di un surrealismo inquietante alla Max Ernst, ma sostenute da un sottofondo musicale segnato da non rari endecasillabi o almeno dalla scelta di sonore parole piane in chiusa del verso. Dal punto di vista della lingua poetica Marina non mai stata una autrice "facile", come certo non lo era quella che ritengo il suo nume tutelare, Amelia Rosselli. E' sempre necessario, leggendola, cercare di individuare un nucleo, una associazione per quanto astratta, una metafora in genere pi concettuale o cognitiva che meramente retorica o analogica ("mia madre stata un piatto / da schianto sulla terra / una leccornia di vita"), il suo linguaggio - mutuando il concetto dall'informatica -  di basso livello, cio molto vicino alla "sorgente" del pensiero, umano o di macchina che sia, ma anche ad una percezione quasi nervosa del dolore e della "privazione" (intendendo questo termine in senso ampio).

Certo questo non significa che quella di Marina sia "solo" una scrittura effusiva, sorgiva o "automatica". Credo che ci sia dietro anche un intenso lavorio, spesso ansioso e insoddisfatto, ma che questo lavorio consista appunto (e qui forse sta il suo valore di ricerca) nel mantenere un equilibrio,  in bilico sul fulcro di quel livello espressivo di cui dicevamo, tra "sorgente" e comunicazione, un equilibrio che sembra per lei vitalmente necessario, al di l di eventuali compromessi con chi legge. Se c' un punto critico, come ho scritto altre volte, quello di una serialit stilistica, di una "maniera" o modulo replicabile, una specie di labirinto borgesiano di cui i compatti testi di Marina costituiscono le pareti. Ma forse anche quello a sua volta significativo di una impossibilit, di una mono-tonia del tempo, di una invariabilit, di una "meccanica" dell'esistenza. O forse solo un modo di vivere (e di vivere la poesia) a cui difficile sfuggire. (g.c.)



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Luned, 21 settembre 2015

Francesco Balsamo - Cresce a mazzetti il quadrifoglio



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