Cose Dell’Altro Mondo – Francesco Patierno

Posted by m. p. in cinema on 3 febbraio 2012

spacer In seguito agli sconvolgimenti politici e sociali che hanno attraversato i paesi nordafricani nel corso della cosiddetta primavera araba, nonché al conseguente intensificarsi del fenomeno dell’immigrazione clandestina, ancora una volta il cinema italiano ha individuato nel razzismo un tema caldo. E l’interesse è tale da far sì che arrivino ad essere presentati tre diversi film dedicati a questo stesso tema nel corso dell’edizione del 2011 del Festival del Cinema di Venezia. Tra questi è Cose Dell’Altro Mondo, del regista napoletano Francesco Patierno, quello che più di tutti potrebbe essere ricordato come il lavoro che sembra aver incarnato il desiderio di cavalcare i temi del razzismo e dell’immigrazione. Non solo per l’approccio del tutto esplicito utilizzato per affrontare l’argomento, ma anche in virtù delle polemiche che hanno accompagnato le prime proiezioni. In particolare a causa della collocazione geografica scelta per fare da cornice ad un’idea già portata sul grande schermo in una produzione americana. Infatti, trasportando all’interno di un contesto tutto italiano l’idea che fu di Sergio Arau in occasione della realizzazione del suo A Day Without A Mexican, il film prova a lanciare il suo j’accuse nei confronti di una società che da un lato manifesta il suo fastidio nei confronti di blocchi di popolazione individuati come estranei, ma che dall’altro ricoprono importanti ruoli ai fini della sua stessa sopravvivenza. L’idea originale era molto semplice: il regista messicano aveva provato a disegnare lo scenario di una California che un giorno si sveglia priva della popolazione d’origine messicana, con tutto ciò che ne consegue sul piano economico e lavorativo come su quello sociale in generale. Pertanto, sulla base di presupposti analoghi, il regista italiano decide di utilizzare l’idea di un’improvvisa sparizione della popolazione di origine straniera e la trasferisce all’interno di una cornice tutta italiana, immaginando quali problemi potrebbe provocare un simile evento anche per quelle stesse persone che ne invocano l’allontanamento. In pratica si tratterebbe di valutare quali conseguenze potrebbero esserci per la società in generale se per qualche motivo le retoriche populistiche che cavalcano il razzismo dovessero diventare improvvisamente realtà.

Nella cornice del nord-ovest italiano, Libero Golfetto (Diego Abatantuono) è un imprenditore veneto che non fa alcun mistero del suo razzismo nei confronti degli immigrati. Ma mentre da un lato appare in una televisione locale a lanciare anatemi contro gli stranieri che affollano le città italiane, dall’altra non esita ad avvalersi di manodopera straniera sia all’interno della sua fabbrica che a casa sua. Con una disinvoltura disarmante, l’imprenditore non si fa scrupoli ad impiegare come operai in fabbrica o nel ruolo di inservienti e collaboratori domestici quegli stessi immigrati contro i quali inveisce pubblicamente. Inoltre, sebbene non perda occasione per lanciare insulti ed anatemi contro gli stranieri, in privato si intrattiene in una relazione extraconiugale proprio con una prostituta di colore. Ma Libero non è l’unico protagonista del film. Infatti, parallelamente alla sua storia scorrono le vicende di Laura (Valentina Lodovini), la figlia con cui lo stesso Libero non ha rapporti da tempo, e Ariele (Valerio Mastandrea), l’ex-fidanzato della ragazza. Lei è una maestra elementare che aspetta un figlio frutto di una relazione proprio con un dipendente di colore dell’azienda paterna, mentre lui è un poliziotto che non sembra accettare la fine della loro relazione e si trova costantemente preso tra il lavoro ed una madre malata di Alzheimer .

Per tutti e tre i personaggi, come per tutti coloro che li circondano, le cose cambiano radicalmente quando, in quella che sembrerebbe essere una sera come tante altre, va in onda in televisione l’ennesimo monologo razzista di Libero. Dallo schermo dedicato solo a lui, l’uomo invoca uno “tsunami purificatore” che ripulisca le città dalla presenza degli immigrati. Ma questa volta, non si sa se per caso o meno, la sua richiesta viene esaudita. L’indomani, al risveglio, la popolazione scopre che tutti gli immigrati sono spariti senza lasciare tracce. E come tutti anche i tre protagonisti si trovano costretti ad affrontare numerose difficoltà. Svanita nel nulla la badante, Ariele non riesce a trovare nessuno che si prenda cura della madre malata durante le sue assenze. Laura è preoccupata per il padre del bambino che porta in grembo, tanto da chiedere allo stesso Ariele di fare qualcosa per ritrovarlo. E non ultimo Libero, la voce dell’intolleranza che ha lanciato l’anatema via etere, si ritrova ad avere un’azienda paralizzata dalla mancanza di operai e una casa sporca e in disordine per l’assenza di collaboratori domestici. Tuttavia, pur con tutti i problemi che si trova a dover affrontare, la cosa che sembra maggiormente segnare quest’ultimo a livello personale è la sparizione della prostituta con la quale aveva sviluppato un rapporto che per lui non si fermava solo al piano sessuale. Ma i disagi che devono fronteggiare i tre protagonisti sono tutt’altro che isolati. Come loro, tutta la città si ritrova in difficoltà: si accavallano le notizie di fabbriche chiuse per la mancanza di operai, di bar e ristoranti che non riescono a lavorare per l’assenza di camerieri, di raccolti che vanno a male per l’insufficienza di braccianti, di merci ferme per la sparizione di numerosi camionisti e cosi via.

Il messaggio che il film vorrebbe lanciare al pubblico, esattamente come l’originale statunitense, non lascia spazio a dubbi: che piaccia o meno, la questione dell’immigrazione non può essere affrontata semplicemente a suon di slogan più o meno razzisti e di prese di posizione preconcette. E proprio in ragione di questo, la questione che ha sollevato il maggior numero di polemiche riguarda prima di tutto la collocazione geografica scelta come ambientazione. L’abbinamento tra il tema del razzismo ed un imprenditore veneto è stata utilizzata come pretesto da più di un soggetto, politico e non, per rinfacciare alla produzione una presunta equazione tra nord ovest italiano e discriminazione. Quello che non è stato considerato all’interno di simili polemiche, e che invece il film utilizza come proprio presupposto, è il riconoscimento implicito dell’importanza della presenza dei soggetti che poi spariscono nella società in cui vivono e lavorano. Infatti, viene da sé che, affinché possa esserne percepita la mancanza, è necessario che la loro funzione sociale sia riconosciuta, anche solo implicitamente. Chi si è trovato a rivendicare polemicamente il livello di integrazione raggiunto da diversi blocchi di popolazione immigrata nelle città del nord ovest non faceva altro che esplicitare l’ovvio che costituisce la premessa della narrazione: se gli immigrati non fossero parte integrante della società da cui spariscono, il loro svanire nel nulla non sarebbe causa di mancanze, carenze o disagi. E la stessa collocazione della vicenda nell’area del nord ovest industriale, per quanto non una scelta obbligata né l’unica possibile, risulta decisamente aderente alla volontà di far viaggiare in modo parallelo, quasi in modo schizofrenico, integrazione e discriminazione, rapporti umani in privato e slogan razzisti in pubblico.

Tuttavia, al di là delle premesse, o meglio proprio in virtù di queste, il film non solo non riesce a raggiungere il suo obiettivo, ma anzi finisce con l’assumere un profilo estremamente simile a quello che dovrebbe essere l’oggetto della sua denuncia. Proprio come nei monologhi di Libero, anche nel film nel suo complesso gli stranieri risultano pressoché privi di voce, strumenti inerti di forme di propaganda. Nella sua foga di voler denunciare una certa ipocrisia che unisce politiche di sfruttamento sul lavoro a retoriche razziste, il film finisce con il ridurre lo straniero a mero strumento, sia esso di lavoro o di soddisfacimento sessuale. Non solo il film non mette in alcun modo in discussione lo sfruttamento dell’immigrazione, ma anzi la utilizza a sua volta per portare avanti la propria tesi. Le condizioni di vita o di lavoro degli operai, delle badanti e di tutti gli altri non vengono prese in alcuna considerazione, ma anzi si trovano eclissate dai disagi che sorgono al resto della popolazione che si trova a non avere persone disposte a lavorare per compensi bassi o in condizioni prive di determinati requisiti. In linea di massima, l’immigrato viene identificato con l’operaio o con la badante, con la prostituta di colore o con il domestico filippino.

Il film non mette in alcun modo in discussione le condizioni di vita e di lavoro degli immigrati, semplicemente si limita a denunciare il fatto che c’è chi fa propaganda razzista pur in presenza di sfruttamento. Ma l’accusa non si muove mai in direzione dello sfruttamento vero e proprio, ma solo contro il razzismo, sia esso solo di facciata o meno. E così, l’unica differenza che sembra rimanere tra Libero ed il film nel suo complesso è l’adesione a posizioni ideologiche che, per quanto lontane tra loro, comunque non vanno in alcun modo a mettere in discussione una realtà data per scontata. Libero Golfetto nei suoi monologhi utilizza una retorica grevemente razzista, il film di Patierno prende le distanze dal suo personaggio denunciandone l’evidente ipocrisia, ma alla fine nessuno dei due mette in discussione la condizione sociale ed il vissuto delle persone di cui discutono. E il film finisce così per smarrirsi in quella dimensione tipica del politicamente corretto nella quale sembra essere più importante come si definisce una cosa rispetto al trattamento che le si riserva in realtà.

Diego Abatantuono, Francesco Patierno, Valentina Lodovini, Valerio Mastandrea

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Samira Bellil – Via Dall’Inferno

Posted by m. p. in libri on 9 gennaio 2012

spacer Nell’Ottobre del 2002, Sohane Benziane, una diciassettenne di origine algerina, muore bruciata viva in seguito ad un rogo appiccato dal suo ragazzo, di poco più grande di lei. Il fatto avviene nel locale dedicato alle pattumiere al piano terra di un palazzo di Vitry-sur-Seine, un quartiere popolare nella periferia di Parigi. L’uomo, un piccolo boss di una gang locale, aveva deciso che lei avrebbe dovuto essere la sua donna, e che pertanto avrebbe dovuto obbedire alla sua decisione che le imponeva di rimanere segregata in casa. Ma la diciassettenne decise di opporsi e ribellarsi ad un simile abuso, e la reazione dell’uomo è stata di cospargerla di benzina e darle fuoco. Avvolta dalle fiamme, la ragazza riuscì a sopravvivere solo quel tanto che le ha permesso di correre fuori in strada e morire davanti a decine di testimoni. Anche in virtù della sua ferocia, il caso attirò su di sé una particolare attenzione da parte dei media e come dell’allora nascente movimento femminista Ni Putes Ni Soumises (“né puttane né sottomesse”), che fece di questa brutale tragedia una bandiera. Coerentemente con il nome adottato, l’obiettivo di tale movimento consiste lottare in favore dell’emancipazione femminile all’interno di quelle situazioni di degrado, sociale e culturale, che le vedono intrappolate nel ruolo di vittime di violenza, fisica e sessuale.

Si tratta di un obiettivo che mostra tutta la sua drammatica importanza quanto più si tiene conto del fatto che quello della diciassettenne arsa viva non è stato altro che un episodio particolarmente eclatante all’interno di una realtà in cui la violenza sulle donne rasenta la normalità. All’interno di un clima che si nutre avidamente di paura, silenzio ed omertà, l’accendersi delle luci dei riflettori e dell’attenzione dell’opinione pubblica è uno strumento di lotta formidabile per permettere alle vittima di sentirsi meno sole.  Ed è proprio all’interno di un simile, drammatico contesto che interviene la testimonianza in prima persona di Samira Bellil, che con una lucidità che non risparmia nemmeno la sua stessa persona racconta le violenze e le sofferenze patite nel corso della sua vita nella periferia parigina. Spinta dal desiderio di abbattere il muro di silenzio che per anni ha coperto il suo dolore, ad un certo punto della sua vita Samira Bellil decide di mettere nero su bianco le violenze subite nel corso di anni e sbatterle in faccia all’opinione pubblica. E’ così che nasce Via Dall’Inferno (“Dans L’Enfer Des Tournantes“), il racconto della ragnatela di violenze, silenzi, abbandoni, emarginazione e soprusi di cui è stata vittima per oltre un decennio.

Tutto ha inizio quando Samira ha solo tredici anni e si trova ad indossare i panni della “donna” di Jaid, un diciannovenne che già occupa il ruolo di boss del suo quartiere. Cresciuta nell’ambiente degradato delle cités parigine, i quartieri che costituiscono le periferie della capitale francese, Samira non può essere considerata una completa sprovveduta. Ma nonostante tutto il tempo trascorso per strada, la sua giovanissima età non le consente di comprendere i pericoli in agguato nell’ambiente che frequenta, e tantomeno di capire che le attenzioni che Jaid le dedica sono tutt’altro che affettuose. Il che non stupisce se si considera l’intreccio tra traumi e bisogno d’affetto che aveva già lasciato un segno profondo sulla sua esistenza. Infatti, anni prima, quando era ancora poco più che una neonata, suo padre finì in carcere e sua madre la diede in affidamento perché convinta di non essere in grado di prendersi cura di lei. Trascorre quindi i primi cinque anni della sua vita in Belgio a casa di una coppia che la tratta con tutta la cura riservata ad una figlia. Paradossalmente, l’allontanamento dalla realtà dei genitori naturali ha costituito una delle parentesi più luminose nel corso di un’esistenza largamente dominata dalle ombre. E per tutta la sua vita non smetterà mai di ricordare con un affetto che non raramente sfuma nel rimpianto quella coppia che le ha voluto bene e che l’ha circondata di amorevoli cure. Ma quando i suoi genitori naturali la riportano a casa, la sua vita cambia completamente. Il salto dall’ambiente colmo di dialogo e comprensione che aveva trovato in Belgio all’impostazione rigida, autoritaria e non raramente violenta dei suoi genitori, è traumatico. Qualsiasi disobbedienza o atto giudicato come una mancanza di rispetto viene punito con botte ed insulti. I pugni e i calci sono all’ordine del giorno. E non mancano le occasioni in cui in piena notte si trova ad essere buttata fuori di casa dal padre ubriaco che urla e la minaccia con un coltello. Per evitare l’aria pesante che si respira a casa con la famiglia, non raramente accade che passino più giorni senza che lei faccia ritorno a casa. E’ per tutti questi motivi che quando Samira incontra Jaid, anche se appena tredicenne, per lei la vita da strada non è affatto un oggetto astratto. Ma nonostante ciò, non ha affatto idea dell’inferno nel quale sprofonderà per aver frequentato quella banda di ragazzi. Pur conoscendo la cattiva fama che li circonda, l’ingenuità e la ricerca di calore umano non le permettono di comprendere che sta scambiando lo sfruttamento e l’abuso per una forma di attenzione alla sua persona.

Sembra un giorno come tanti altri che l’hanno preceduto, quando assieme ad un’amica riesce ad accaparrarsi un paio di costose scarpe alla moda utilizzando un assegno falso. Mentre torna a casa con le amiche decide di passare da Jaid e i suoi per sfoggiare il nuovo possesso. Come altre volte in passato, lui si apparta con lei in uno scantinato per fare sesso e una volta finito il tutto lei riprende la strada di casa come sempre. Ma questa volta ad attenderla ci sono gli amici di lui che la aggrediscono e cominciano a pestarla selvaggiamente. Perlomeno fino a quando non interviene K., uno dei soggetti più grossi e temuti della compagnia, che si fa largo tra la grandine di botte che continuava ad abbattersi sulla ragazzina. Ma il sollievo derivante dall’idea di essere stata salvata ha vita brevissima. A suon di botte la conduce a casa sua dove le fa vedere un film porno e le ordina di fare quello che osserva sullo schermo. Sottomessa con la violenza e incapace di reagire per la paura, lei obbedisce nella speranza che lui finisca presto e la lasci andare via. Ma l’incubo della ragazza è appena all’inizio: due amici del suo rapitore si uniscono a lui e trascorrono la notte ad abusare di lei, violentandola e seviziandola. Quando il mattino dopo lui la lascia andare per la sua strada, lei è sconvolta e non sa cosa fare. Per quanto giovane, conosce bene la cultura all’interno della quale è vissuta e sa bene che parlarne con i genitori non farebbe altro che aumentare la sua umiliazione. Non solo non cercherebbero di aiutarla, ma anzi non esiterebbero ad incolparla per la situazione in cui si è cacciata. Senza contare il fatto che teme eventuali ritorsioni nei confronti suoi e della sua famiglia. Decide pertanto di cambiare le sue abitudini:  tiene un profilo basso e circospetto ed evita accuratamente di avvicinarsi alle zone frequentate da Jaid e i suoi. Ma tutto questo non è sufficiente ad evitare che K. la incroci un’altra volta lungo il suo cammino. E’ passata appena qualche settimana da quella notte, quando lui la incontra sul treno e la blocca; lei cerca di liberarsi e chiede aiuto ai presenti ma nessuno interviene. Lui la trascina via con sé in un palazzo dove ha modo di violentarla ancora una volta. E anche questa volta Samira decide di non denunciare il suo violentatore e di non dire nulla alla sua famiglia per il senso di colpa che la tormenta pur essendo la vittima. Ancora una volta, la vergogna e la paura di ritorsioni e vendette dominano le sue scelte.

Ma ciò non impedisce che la notizia della “festa” che le è stata fatta si diffonda rapidamente in giro per il quartiere. Samira prende così coscienza di essere finita nell’inferno dei tournantes, le “feste” in cui i gruppi di uomini fanno girare la vittima di turno, una ragazza marchiata dall’infamia di essere una di facili costumi e quindi indegna di qualsiasi rispetto, e ne abusano a rotazione. A partire dall’iniziale isolamento che si consuma nel tentativo di superare e dimenticare, la sua odissea presto inizia a sprofondare in un vortice di autodistruzione i cui ingredienti saranno la vita di strada, le comunità per ragazzi con situazioni difficili, l’abuso di fumo, e molto altro. Non a caso, è proprio quando si trova coinvolta in una denuncia contro il suo violentatore che le cose iniziano a peggiorare in modo inarrestabile, dimostrando che il suo silenzio in famiglia era più che motivato. Quando due ragazze, anche loro vittime di violenze sessuali da parte degli stessi individui che avevano abusato di lei, si presentano a casa di Samira chiedendo di parlare con lei per chiederle unirsi alla loro azione legale, il padre reagisce esattamente come immaginava la ragazza: con malcelato disprezzo nei confronti di quella figlia che, a causa del suo comportamento, si è trasformata in una fonte di vergogna per lui e per la sua famiglia. Per molto tempo in casa regna un’atmosfera soffocante: il padre alterna i suoi sguardi pieni di ostilità e disprezzo alle esplicite accuse di essere una causa di disonore, vergogna e disagi. In casa Samira viene trattata come una colpevole anziché come una vittima, perlomeno fino a quando il genitore non prende la decisione di sbatterla fuori di casa. E purtroppo per lei questa non sarà affatto l’ultima volta in cui avverrà una simile inversione di ruoli. Infatti è lo stesso trattamento che le sarà riservato quando, a diciassette anni, verrà nuovamente violentata da due uomini su una spiaggia algerina, in occasione di una serata con un amico durante una vacanza con la madre. Non solo avrà modo di osservare nelle persone che la circondano lo sguardo pieno di riprovazione di chi pensa che se la sia “andata a cercare”, ma le stesse forze dell’ordine presso cui proverà a denunciare i suoi aggressori liquideranno il suo caso come indegno di attenzione nel momento stesso in cui lei spiegherà cosa stava facendo sulla spiaggia (era uscita di sera con un amico che non era il suo uomo) e soprattutto quando ammetterà di non essere vergine.

Ma quale sarebbe questa colpa che la insegue ovunque, a casa come in strada? Quale sarebbe la ragione a causa della quale il mondo in cui vive rifiuta ostinatamente di riconoscere i segni della sofferenza sul suo corpo di vittima, perfino quando questo urla tutto il suo dolore contorcendosi in preda a violente convulsioni epilettiche? Quale sarebbe il fattore che porterebbe, in alcuni casi, perfino altre donne a solidarizzare con i suoi aguzzini? La risposta non può essere univoca e non può affondare le proprie radici solo nella vicenda di Samira. Seppure con tutte le differenze che emergono di volta in volta, la storia di Samira è anche quella delle altre ragazze che conosceva e che hanno affrontato le stesse violenze. Come è anche anche la storia di Sohane che viene bruciata viva, di Samia che tra il 1999 e il 2000 subisce per mesi abusi e sevizie da una parte di una ventina di persone, fino a quando non sprofonda nella follia. E’ la storia delle tante ragazze che subiscono abusi e cercano di ribellarsi e denunciare, come anche delle molte altre che subiscono in silenzio la loro condizione, strette nella morsa della paura e della vergogna. In pratica è la storia di tutte quelle donne che finiscono vittime di stupri collettivi perché si truccano o vestono all’occidentale o perché semplicemente escono e vanno in giro da sole anziché rimanere in casa a prendersi cura degli uomini e della famiglia di cui fanno parte.

Sulla base di simili presupposti non è difficile comprendere come sia possibile che simili atti di violenza possano trovare comprensione e giustificazione da parte di altre donne. All’interno di un contesto nel quale la rispettabilità di una donna è direttamente proporzionale alla sua prossimità ad una o più figure maschile, quelle come Samira, quelle che si truccano e si vestono per andare in giro da sole, vengono giudicate come delle poco di buono, come quelle che “se la sono andata a cercare”. Una ragazza che esce da sola, anziché stare a casa e comportarsi secondo le regole che sarebbe tenuta a rispettare, viene giudicata come una che provoca. L’esibizione della femminilità e la rivendicazione di indipendenza sono atti che vanno contro un ordine sociale che vede la donna come sottomessa all’uomo. E tutte quelle che non rispettano una simile gerarchia vengono giudicate come puttane alla mercé di chiunque voglia approfittarne. O puttane o sottomesse, appunto. Il corpo femminile è il terreno di battaglia dove entrano in collisione istanze contrapposte: le eventuali aspirazioni di emancipazione da parte di singole donne contro una o più collettività che non intendono rinunciare al proprio potere. Ovviamente tutto ciò non vuol dire che l’emancipazione passi necessariamente attraverso l’esibizione del corpo attraverso vestiti sensuali o comunque appariscenti. Si tratta piuttosto della possibilità da parte di ogni donna di poter scegliere se farlo o meno, ed eventualmente in quali occasioni, senza per questo essere additate come “puttane” senza valore di cui è possibile abusare senza conseguenze.

La storia di Samira, dalle fughe di casa che precedono le violenze sessuali, fino al riconoscimento delle sue ragioni in sede giudiziaria e alla pubblicazione del libro, è tutta all’insegna della ricerca dell’autodeterminazione e del riconoscimento da parte degli altri. E i nemici contro cui ha dovuto lottare duramente sono stati il silenzio e il mancato riconoscimento delle sue rivendicazioni. Dall’uscire di casa da sola al vestirsi secondo le sue preferenze fino al frequentare chi le pareva, tutta la sua storia è una lotta contro i giudizi e le accuse da parte di blocchi di persone quando non di intere collettività. Da parte dei genitori che non accettano i suoi desideri di indipendenza, da parte di tutte le donne che giudicano questa sua intraprendenza come il comportamento di una “puttana” che gioca con i desideri degli uomini e li provoca, e sulla stessa frequenza anche da parte di tutti gli uomini che affermano che se una si comporta così allora “l’ha voluto” oppure “se l’è cercata”. E’ la storia di tutte quelle donne che rivendicano il diritto all’autodeterminazione, a non essere costrette a sottomettersi ai diktat da parte di altri uomini, o anche di altre donne, e senza per questo essere giudicate “puttane” indegne di qualsiasi rispetto (o diritto). Perché uno degli elementi principali di cui si nutre la sottomissione è la delegittimazione dell’individualità e del diritto delle singole persone a disporre di sé e del proprio corpo come meglio credono o ritengono opportuno. Ed in tal senso, l’importanza della testimonianza di Samira Bellil non risiede solo nel suo puntare l’obiettivo su un maschilismo di ritorno che ribolle e si diffonde nel degrado e nel silenzio, ma anche e soprattutto nel mostrare come ancora oggi, proprio in una delle patrie dell’uguaglianza europea, certi valori e certe tradizioni riescano a sfruttare tutto l’armamentario morale di cui dispongono per diffondersi e cercare forme di consenso e di legittimazione.

Samira Bellil

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Michel Faber – Sotto La Pelle

Posted by m. p. in libri on 19 dicembre 2011

spacer Seduta ogni giorno dietro al volante, Isserley vaga per ore lungo le strade delle lande scozzesi alla ricerca di autostoppisti da caricare a bordo della sua automobile. Il copione che si ripete da anni è sempre lo stesso: dopo una prima selezione basata sull’aspetto fisico, Isserley si impegna nel tentativo di intrecciare un dialogo con l’uomo che ha caricato, al fine di valutare se sia adatto alla sua ricerca o se sia il caso di lasciarlo andare per la sua strada. Ogni volta che un autostoppista risulta in possesso dei requisiti fisici necessari, Isserley può passare alla fase successiva, che consiste nell’addormentarlo iniettandogli nel corpo un potente anestetico e nel portarlo nella sua base. Qui, ancora privo di sensi, viene trasportato in una zona sotterranea nascosta dove viene messo in gabbia e preparato per essere lavorato, ingrassato, ed infine trasformato in cibo. Agli occhi di Isserley e di quelli che lavorano con lei, gli autostoppisti che cattura quasi ogni giorno non sono altro che “Vodsel”: gli animali che popolano il pianeta Terra e che l’industria per cui lavora trasforma in costoso e raffinato cibo ad uso e consumo dei ricchi della razza aliena di cui fa parte.

Ma a sua volta Isserley non è un’aliena come tutti gli altri che la circondano. Sottoposta in passato a molteplici interventi chirurgici che ne hanno modificato radicalmente l’aspetto per farla assomigliare ad un Vodsel, Isserley svolge ogni giorno il suo compito lottando contro il dolore fisico che le deriva dal dover vivere con un corpo per lei innaturale, nonché contro la vergogna di quell’immagine di sé che lei percepisce come deturpata e sfregiata. In modo molto chiaro, Isserley percepisce sé stessa come un essere umano che è stato storpiato e mutilato unicamente al fine di renderla idonea allo svolgimento del compito che le è stato affidato. E occultare la sua natura aliena per confondersi con i Vodsel è una parte ineludibile delle sue mansioni. Accade così che agli occhi degli autostoppisti Isserley non appaia diversa da tante altre donne che ogni giorno viaggiano in macchina lungo le strade del paese. Salgono tranquillamente a bordo dell’automobile e si siedono accanto a lei pensando di trovarsi in compagnia di una piccola donna dal grande seno che guida aggrappata al volante. Nel frattempo, con gli occhi parzialmente nascosti dagli spessi occhiali che porta sul naso, lei li studia per valutare se possono essere risultare utili o meno alla sua causa. Il tormento che le deriva dal dover convivere con un aspetto fisico del tutto assimilabile a quello delle creature che seleziona e cattura è come un’ombra che non la abbandona mai. Ed infatti, quando non si trova impegnata nella sua attività, la sua esistenza è segnata da una profonda solitudine.  Ogni volta che si ritira nella sua dimora fatiscente per riposarsi e recuperare le energie, a farle compagnia trova solo il senso d’umiliazione per quel corpo stravolto dagli interventi chirurgici e la sensazione di vergogna per tutte quelle cicatrici che decorano la sua pelle come tanti marchi d’infamia.

La presenza e l’attività di Isserley e dei suoi simili nelle solitarie lande scozzesi è la causa di uno slittamento degli uomini al secondo posto della catena alimentare. Infatti, una volta chiarito che all’interno di quel contesto gli uomini sono scivolati alle spalle di una razza aliena che riserva per sé la definizione di “esseri umani”, e che non si fa scrupoli ad utilizzarli come cibo, il romanzo sembrerebbe muoversi nella direzione di uno sguardo critico nei confronti delle industrie alimentari e del nutrimento a base di carne in generale. Ma con il procedere della lettura non solo tale chiave di lettura si fa sempre più fragile, ma anzi tende a dissolversi in favore di uno sguardo più profondo sulla contemporaneità. Il primo elemento a mettere in crisi la centralità del tema della catena alimentare interpretata in chiave anticarnivora riguarda proprio il processo industriale attorno al quale ruota tutta la narrazione. Per la specie di cui fa parte Isserley, i Vodsel non sono una fonte di nutrimento e sostentamento, come potrebbero esserlo i polli o i bovini per questi ultimi. Piuttosto vengono impiegati per produrre della carne dal sapore esotico e molto costosa: un prodotto esclusivo a tal punto da non rappresentare null’altro che un bene di lusso accessibile solo alle sfere più ricche della società. Non a caso, in nessun momento e per nessun motivo viene fatto in qualche modo cenno all’ipotesi di allevare Vodsel per poi destinarli al mercato alimentare in larga scala. Non solo non ci sono allevamenti di Vodsel, ma anzi ci sono numerose regole che stabiliscono i criteri che ne regolano la selezione. I Vodsel devono essere prima di tutto maschi: giovani, in salute, e possibilmente molto solidi dal punto di vista fisico. Questo è ciò che fa sì che Isserley possa decidere se fermarsi a caricare un uomo che chiede un passaggio ai margini della strada, o al contrario continuare a vagare alla ricerca di un nuovo candidato potenzialmente più idoneo. Poi, una volta caricata in macchina la possibile preda, inizia la seconda fase della selezione. Facendo finta di parlare solo per rompere il silenzio del viaggio, Isserley cerca di tenere il dialogo con il Vodsel sotto controllo in modo da scoprire se è sposato, se qualcuno lo aspetta, perché si trova a viaggiare in autostop, e così via… In altre parole, il suo obiettivo consiste nell’ottenere una serie di informazioni che le permettano di valutare se qualcuno sa dove si trova in quel momento e, soprattutto, se c’è qualcuno che lo aspetta o che comunque potrebbe dare un allarme se non dovesse vederlo arrivare nell’immediato futuro.

Pertanto la preda di Isserley deve essere un maschio sano, possibilmente giovane e in forma, ma allo stesso tempo un emarginato, o comunque non strettamente collegato ad una struttura famigliare o sociale che potrebbe allarmarsi immediatamente in seguito al prolungarsi imprevisto della sua assenza. Sembra quindi apparire in modo sempre più chiaro che la struttura fantascientifica del romanzo non descrive un’ipotetica realtà nella quale gli uomini non si trovano più in cima alla catena alimentare. Si tratta piuttosto di uno sguardo, attraverso gli occhi alieni di Isserley, sul mondo di oggi e su come già adesso gli esseri umani siano ben distanti da una condizione di parità. Da un lato c’è una classe dominante, composta dai pari di Isserley e dall’Elite a cui a loro volta questi sono sottomessi, e dall’altra ci sono gli sfruttati, gli esseri umani terrestri in generale, ed in particolare gli emarginati, che possono essere trasformati in cibo per le Elite senza che nessuno protesti, né senta la mancanza o semplicemente se ne accorga. La chiave di tutto è lo sfruttamento. Ma non si tratta di una semplice contrapposizione tra sfruttatori e sfruttati, tra bianco e nero. Isserley è l’essere che operativamente caccia e cattura gli autostoppisti, fornendo la materia prima all’industria di cui è parte integrante; ma allo stesso tempo è a sua volta una sfruttata, un’emarginata intrappolata dentro un corpo che detesta e che è fonte di continua sofferenza. E’ condannata a svolgere una mansione che rappresenta tutti i fallimenti e le delusioni di un passato che non è più null’altro che un triste ricordo.

I limiti entro i quali si deve muovere Isserley non sono solo geografici, ma anche prima di tutto sociali. Infatti, per quanto da un punto di vista strettamente materiale la selezione si basi esclusivamente sull’aspetto fisico dell’autostoppista, la seconda fase, quella del dialogo mentre la macchina macina chilometri, serve a tutelare l’attività che sta svolgendo. Far sparire una persona bene inserita all’interno di un contesto sociale significherebbe far scattare un allarme e far partire indagini e ricerche. Al contrario, la sparizione di un vagabondo, di un viaggiatore solitario, o semplicemente di una persona sola, è qualcosa che non interessa nessuno. E’ così che negli emarginati che svaniscono nel nulla senza attirare l’attenzione di nessuno sfumano le immagini dei sottomessi e degli sfruttati. Nell’anonimato delle vittime dell’industria per cui lavora Isserley non è difficile riconoscere i tratti dei minori in balia dello sfruttamento della manodopera costretti a turni massacranti per pochi spiccioli. Come è anche possibile intravedere i contorni delle donne, quando non delle ragazze, schiavizzate e costrette a prostituirsi nel mercato del sesso. In pratica, alle spalle degli autostoppisti per mano aliena si agitano i fantasmi di tutte quelle persone costrette ogni giorno a subire violenze, umiliazioni e torture per i motivi più diversi. La razza di Isserley non rappresenta semplicemente gli uomini che fanno male agli animali. Per arrivare ad un simile obiettivo sarebbe stato sufficiente chiudere i Vodsel all’interno di batterie analoghe a quelle dei polli. Più crudelmente, la razza aliena rappresenta quell’umanità che rimane chiusa all’interno della torre d’avorio dei propri interessi o del proprio piacere, indifferente al destino altrui. Se Il Pianeta delle Scimmie era l’affresco di un mondo all’interno del quale il razzismo era ancora ben presente e lo denunciava facendo indossare all’uomo bianco gli scomodi panni del discriminato, Sotto La Pelle si spinge oltre l’etnia per andare a scavare all’interno delle persone, appunto al di sotto dell’epidermide, per puntare il proprio obiettivo in direzione di altre forme di sfruttamento e discriminazione.

Michel Faber

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Stieg Larsson – La Regina Dei Castelli Di Carta

Posted by m. p. in libri on 13 dicembre 2011

spacer Terzo ed ultimo capitolo di una saga che si chiude in forma di trilogia a causa della scomparsa dell’autore, il romanzo inizia esattamente da dove si era concluso il suo predecessore. Lisbeth Salander è stata scagionata da alcuni capi d’accusa, ma altri, seppur meno pesanti, pendono ancora sulla sua testa. Gravemente ferita al termine del romanzo precedente, si trova rinchiusa in ospedale, sotto stretta sorveglianza, in attesa di essere trasferita nel carcere che la ospiterà fino a quando non dovrà affrontare il processo che la vede vestire i panni da imputata. La drammatica catena di eventi che in passato avevano condotto Lisbeth all’internamento prima, e alla dichiarazione di incapacità mentale dopo, ha preso forma in modo definitivo ed è il vero e proprio motore della vicenda. Si tratta di un complotto che vede il coinvolgimento di una sezione speciale dei servizi segreti svedesi il cui obiettivo era coprire e proteggere un’importante spia russa in cerca di asilo. Lisbeth, che ai tempi e

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