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"La crisi e poi?": il tema di FORUM PA 2010

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La crisi, e poi?[1]
Il ruolo della PA per uscire dalla crisi con un Paese diverso e più forte, fondato sul merito e sull’innovazione

Verso i giovani che stanno preparando il loro futuro, e verso noi stessi, abbiamo un dovere: non sprecare questa crisi….. Le grandi crisi servono per mettersi in discussione, costringono ad osare là dove il pensiero non si era mai avventurato…

 

 

Non sprecare la crisi

Premessa

Le parole di Federico Rampini[2] sono introduzione ideale al tema di FORUM PA 2010, ventunesima edizione di quello che è diventato il più importante momento di confronto e di benchmarking per il mondo pubblico, che, preparato da molti appuntamenti in tutta Italia e supportato da una vasta comunità online, si svolgerà alla Fiera di Roma dal 17 al 20 maggio.

 

Il ruolo chiave della mano pubblica

Non sprecare la crisi vuol dire soprattutto porre le condizioni perché le innovazioni di sistema in grado di accrescere la nostra competitività e la nostra qualità della vita possano essere immaginate, realizzate ed applicate. In questo la pubblica amministrazione ha una responsabilità senza pari. Certo non può far tutto da sola, certo deve essere sempre più aperta al dialogo e ai contributi che vengono dalle imprese, dalle università, dal terzo settore, dai singoli cittadini, ma è alla PA che si sono rivolte e si rivolgono le speranze e le attese. Questa nuova importanza della mano pubblica è stato forse l’effetto più immediatamente visibile del grande sconquasso, ma se la stessa PA non cambia questo effetto nasconde veleno nella sua coda.

 

 

Un’occasione storica

 

 

 

 

 


Il ragionamento in pillole

  • La crisi da cui stiamo faticosamente uscendo, se pure da noi ha avuto in alcuni settori, quale quello finanziario, impatti meno rovinosi che in altri Paesi, rischia di avere effetti catastrofici sul nostro futuro sviluppo, perché è venuta ad incidere su una struttura sociale ed economica molto debole.
  • È necessario quindi, sin da ora, senza rimandare a tempi migliori, un deciso e coraggioso cambio di paradigma che comporti scelte radicali in favore dell’innovazione, dell’istruzione e della ricerca, del riconoscimento del merito.
  • Tali scelte non possono che essere, appunto, scelte e, quindi, impongono di discriminare tra investimenti utili a questo fine e investimenti, forse altrettanto necessari per un’uscita qual che sia dalla crisi di oggi, ma fuori strategia per quel nuovo sviluppo che vogliamo.
  • La mano pubblica e la pubblica amministrazione, che costituisce la cinghia di trasmissione delle politiche, hanno un ruolo decisivo in questo momento topico della vita del Paese: se la PA punta davvero su merito, innovazione, partecipazione può essere il relais autentico per un nuovo modello di crescita sociale.

Il ruolo della PA e il nostro impegno

  • FORUM PA 2010 si propone come facilitatore e promotore di questo cambiamento, centra il suo programma annuale e la sua manifestazione del prossimo maggio su questo impegno e su queste parole d’ordine, lo fa mettendo a fattor comune la sua esperienza ventennale, la sua community di decine di migliaia di innovatori, la sua penetrazione nelle amministrazioni e nelle imprese.

 

Una crisi che viene da lontano

1. Lo scenario “prima” della crisi

La domanda giusta, parlando dell’uscita del Paese dalla crisi, non è quando ne usciremo, ma come. L’Italia è entrata, infatti, nella crisi globale già in gravi difficoltà, con pesanti svantaggi competitivi rispetto agli altri paesi ad economia avanzata, con il fiato corto per dotazione infrastrutturale, per innovazione, per mobilità sociale. Sono cose che sappiamo, cose vecchie diranno molti, ma è bene ricordarcele ora che da più parti si misura la fine del tunnel dal tempo necessario per tornare come prima. Come prima? No grazie.

Riprendo quindi, senza l’ambizione di essere né esaustivo né originale, alcuni numeri noti a (quasi) tutti e le cui cause sono ben precedenti alla crisi. Sono tutti dati che si basano su rilevazioni “prima” del famoso crack della Lehman Brothers, dati che la crisi ha solo aggravato, ma che sono ahimè strutturali.
Tornare come prima? No grazie.

 

Competitività ridotta

1.1 Un Paese non competitivo
  • 48^ in competitività secondo il Word Economic Forum[3] l’Italia è fanalino di coda dell’Europa; nel 2008 era 49^. Ci penalizza soprattutto il settore istituzioni, la scarsa fiducia dei cittadini, il sistema della giustizia.
  • Un terzo dei km di alta velocità rispetto alla Spagna; la metà della spesa in infrastrutture dell’Irlanda; la metà dei km di autostrade rispetto alla Germania: l’Italia è un Paese con infrastrutture scarse e vecchie.
  • Credito e mercato del lavoro: gli imprenditori italiani gareggiano con l’handicap. Secondo il WEF le note dolenti dal mercato del lavoro vengono dal basso livello di collaborazione nelle relazioni tra dipendenti e datori di lavoro (123esimo posto), dalla scarsa flessibilità nella contrattazione salariale (126esimo), dalle difficoltà nelle pratiche di assunzione e licenziamento (128esimo) e dal binomio salari e produttività (124esimo), così come dalla scarsa partecipazione delle donne (90esimo posto) e dal brain drain (91esimo)
  • Le preoccupazioni degli imprenditori sul credito trovano riscontro nella 98esima posizione per l'accesso ai prestiti e nella 104esima per la disponibilità di venture capital.

 

Mobilità sociale congelata

1.2 Un Paese bloccato[4]

  • Nel 2008 (prima del clou della crisi mondiale quindi) il 41% dei cinquantenni riteneva di avere uno stato sociale migliore di quello della famiglia di origine; solo il 6% dei ventenni era dello stesso avviso.
  • L’Italia ha il più alto indice di disuguaglianza in Europa nella distribuzione dei redditi superata solo dalla Polonia e dalla Turchia (i più bassi in Danimarca, Svezia, Austria…).
  • L’Italia è in posizione di coda tra i Paesi occidentali per la mobilità dei redditi (la probabilità di un italiano che è nel più basso quartile di reddito di passare al quartile successivo in tre anni è del 17.6% contro il 25% della Danimarca, il 24% della Spagna, il 22% della Francia, ecc.).
  • Viceversa, se la povertà è insuperabile, la ricchezza si tramanda: in Italia quasi il 50% del differenziale dei redditi dei padri si trasmette ai figli (in Danimarca è il 15% in Spagna il 32%).
  • Solo il 10% dei giovani italiani con il padre non diplomato riesce a laurearsi, in Gran Bretagna è il 40%, in Francia il 35%.
  • Di padre in figlio. Buona parte dei padri architetti (il 44 per cento) ha un figlio laureato in architettura, quattro giuristi su dieci hanno un figlio laureato in giurisprudenza e lo stesso accade agli ingegneri, ai farmacisti e ai medici. Con evidenti ricadute sui percorsi occupazionali. Tanto che il 16 per cento dei figli di dirigenti arriva, dopo solo cinque anni dal titolo di laurea, a ricoprire la carica di funzionario o dirigente.

 

La fiducia al minimo

1.3 Un Paese sfiduciato

  • Nel 2008[5] il 54% degli italiani pensava che “Oggi è inutile fare progetti impegnativi per sé o per la propria famiglia, perché il futuro è incerto e carico di rischi” ; erano il 49% nel 2007 e il 47% nel 2006.·         Nel 2008 l’83% degli italiani non si fidava delle banche, il 79% diffidava del Parlamento, il 70% degli imprenditori, il 68% dei dipendenti pubblici.
  •  L’Italia è al 20° posto su 27 per la fiducia verso le transazioni in Internet[6] : solo il 43% dei cittadini italiani ha piena (5%) o media fiducia (38%) nello svolgere operazioni online.

 

Nord e Sud sempre più distanti

1.4 Un Paese spaccato[7]

  • Il Centro-Nord ha un reddito maggiore del 20% della media nazionale (era il 15% all’inizio degli anni ’80) il Sud ha un reddito del 35% inferiore alla media (era il 20% in meno). La forbice si apre.
  • Solo il 20% degli addetti nel settore manifatturiero al Sud è nei comparti a tecnologia avanzata, contro il 28% al Centro-Nord.
  •  Il rapporto esportazioni/PIL è del 10% al Sud contro il 24% nel Nord sviluppato.
  • L’attrattività per i capitali stranieri è in declino al Sud e nel 2006 solo il 4,5% delle imprese partecipate era nel Meridione.
  • Il Sud ha il 32,6% dei nuclei familiari, ma il 54% delle famiglie monoreddito.
  • Dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni il 25% al Sud non svolge alcuna attività formativa, contro il 17,2% al Nord.
  • I bambini negli asili sono il 15% al Nord e appena il 4,5% al Sud.

 

Un patrimonio di talenti disperso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

E i giovani restano fuori: soprattutto al Sud

1.5 Un Paese che discrimina le donne e i giovani

  • Per il lavoro femminile[8] la media europea si aggira sul 57,4% e quella italiana è fissa sul 46,3%. Penultimi, appunto, nell'Europa dei 27 paesi membri, a dieci lunghezze dall'isola di Malta. In nostra compagnia, sotto il 50%, ci sono Polonia e Grecia. Slovacchia, Romania, Bulgaria viaggiano ben sopra il 50 per cento. Cipro è già al 60%. La Slovenia, appena entrata nella UE, è al 61,8 per cento. La Danimarca guida la classifica con una percentuale del 73,4%.
  • Il nostro Sud è il luogo europeo dove le donne lavorano meno in assoluto. Ecco i numeri: le percentuali sono bloccate al 34,7% (circa il 70% al nord); dal 1993 al 2006 le occupate sono cresciute di 1.469 mila unità nel centro nord e solo di 215 mila nel sud; molte, anche giovanissime, smettono di cercare lavoro, le cosiddette "inattive" e sono 110 mila tra 2006 e primo semestre 2007. Tra i 35 e i 44 anni, la fascia di età in cui si lavora di più, al nord lavorano 75 donne su 100; al centro 68 e al sud 42.
  • Alle donne è comunque destinato uno stipendio inferiore di un quarto di quello del collega maschio. I dati della Presidenza del Consiglio dicono che una dirigente guadagna il 26,3 per cento in meno di un collega maschio. Il differenziale retributivo di genere è pari al 23,3 per cento: una donna percepisce, a parità di posizione professionale, tre quarti di uno stipendio di un uomo.
  • Nel 63,1% delle aziende quotate, escluse banche e assicurazioni, non c'è una donna nel consiglio di amministrazione. Su 2.217 consiglieri solo 110 sono donne, il 5%. Nelle banche dove su un campione di 133 istituti di credito, il 72,2 per cento dei consigli di amministrazione non conta neppure una donna. Benché il 40% dei dipendenti delle banche siano donne, solo lo 0,36% ha la qualifica di dirigente contro il 3,11% degli uomini.
  • Dai dati dell'Eurostat[9] (Ufficio statistico della Ue) sulla disoccupazione giovanile nel 2007 nelle regioni dei 27 stati membri appare che tra le dodici regioni europee con il più alto tasso di disoccupazione giovanile, sei sono regioni italiane. Infatti se si escludono le prime tre posizioni occupate dalle tre regioni francesi d'Oltremare, è la Sicilia la regione europea col più alto numero di giovani disoccupati, ben il 37,2%. Poi dal 7° al 12° posto, se si esclude la regione greca di Dytiki Ellada con il 31,6% (11° posto), la classifica parla tutta italiano. C'è la Campania col 32,5%, la Sardegna col 32,5%, la Puglia col 31,8%, la Calabria col 31,6% e la Basilicata col 31,4%.
  • Nessuno in Europa ha una situazione così  grave, neppure l'ultima arrivata nella Ue, la Bulgaria. Se si considera che la media del tasso di disoccupazione nei 27 paesi dell'Unione è del 7,2% significa che il nostro Mezzogiorno viaggia ad una velocità di sviluppo che è quattro volte più lenta del resto d'Europa.

 

La scuola e la ricerca sempre in secondo piano

1.6 Un Paese che non crede nella conoscenza[10]
  • Nelle PMI il livello formativo dei nuovi addetti è più basso in Italia che negli altri paesi: solo il 13% è laureato a fronte del 26% della media europea.
  • Nella scuola oltre ai dati desolanti del test PISA che condanna l’Italia al terz’ultimo posto dei paesi OCSE, vi è il dato inquietante degli “early school leavers”, cioè dell’abbandono scolastico. L’Italia è al 19,3% nel 2007 contro una media europea del 17,3%.
  • Il tasso di passaggio all’università invece di salire scende dal 74,5% dell’anno accademico 2002-2003 al 68,5% del 2006-2007. D’altra parte la quota di spesa pubblica in istruzione destinata all’università è solo il 17% (contro il 26% degli USA, 25% della Germania, 22% di Spagna e Regno Unito) a cui corrisponde lo 0,76% del PIL contro una media europea dell’1,15%.
  • L’Italia ha speso nel 2006 l’1,15% del PIL in Ricerca e Sviluppo, contro il 2,10% della Francia, il 2,54 della Germania, l’1,78% dell’UK e anche un sorprendente 1,20% della Spagna che partiva però da un 0,8% nel 1990 contro un 1,25% dello stesso anno in Italia.
  • Così, fatta 100 la produttività nel 2000, nel 2007 la Francia è a 107,4, la Germania a 106,6, la Gran Bretagna a 110, la Spagna a 103,8, l’Italia invece resta al palo con 100,4 e un andamento piatto (minimo 99, max 100,8).

 

L’innovazione non è un optional

1.7 Un Paese che non scommette sull’innovazione[11]

  • L’European Innovation Scoreboard, pubblicato dall’Unione Europea, posiziona l’Italia come l’ultimo dei paesi “moderatamente innovatori”. In buona sostanza 17° su 27. Dietro a noi non c’è nessuno dei nostri competitor europei. Sopra tutti i Paesi della vecchia Europa a 15 e molti new entry quali la Slovenia, la Estonia, Cipro, ecc.
  • Il 75% delle famiglie tedesche ha Internet fisso a casa, così il 62% in Francia, e il 51% in Spagna: in Italia la penetrazione non va oltre il 42%. Ma solo il 39% in Italia ha la larga banda contro il 61% in Francia, il 56% in Germania, il 45% in Spagna.
  • In Italia i cittadini che hanno avuto accesso ad Internet negli ultimi tre mesi sono il 47%, ma sono il 57% in Spagna, il 63% in Francia il 75% in Germania.
  • Il 71% delle donne tedesche è online, mentre in Italia lo è solo il 32% (64% in Francia, 57% in Spagna)
  • Tra le famiglie italiane nel 2009 ben il 38% non è alfabetizzata all’ICT, ossia nessuno dei suoi membri ha accesso a Internet o sa usare un PC. Il dato è ahimè stabile: nel 2005 erano il 36%, nel 2007 il 39%: è il fallimento delle politiche contro il digital divide.
  • Passando alle imprese se in Gran Bretagna il 32% delle imprese ha ricevuto ordinativi tramite strumenti di rete, il dato per l’Italia è del 3% (di gran lunga l’ultimo dell’Europa a 15 la cui media è il 18%). Il dramma è che nel 2006 il dato era lo stesso (3%) del 2008: calma piatta.
  • Se poi parliamo di e-gov solo il 5,1% dei cittadini italiani ha usato questi servizi per l’invio delle pratiche contro una media dell’Europa a 27 dell’11,7% e picchi del 32% per i Paesi Bassi e oltre il 20% per Danimarca, Svezia, Francia, ecc.

 

Per una politica che ha il coraggio di scegliere l’innovazione 

 

 

 

 

 

Scegliere è dire di sì ad una cosa e no ad un’altra

 

Il costo di non innovare

 

 

 

Le scelte ineludibili


 


 

 

Una rivoluzione culturale necessaria

2 Il cambio di paradigma

Se la responsabilità è diffusa e i ruoli da giocare sono tanti, un ruolo decisivo spetta alla politica, maggioranza e opposizione. Ed è il ruolo di immaginare oggi il domani migliore per il Paese e di agire con costanza e coerenza per arrivarci. Alla politica chiediamo di essere lungimirante: di agire oggi pensando a domani, di muoversi su scala locale, ma di pensare su scala globale. Chiediamo quindi di scegliere l’innovazione, di puntare sopra ogni cosa sugli asset della società della conoscenza: rete internet a larga banda come diritto universale (la cittadinanza digitale), scuola, università, ricerca, trasferimento dell’innovazione; di avere il coraggio di cambiare il mix del nostro sviluppo, se quello che abbiamo non ci porta dove vogliamo andare. Il piano i2012, annunciato, ma ad oggi ancora non divulgato dal Ministro per la PA e l’innovazione, può essere un buon banco di prova. Ma lo sarà solo se si accetterà di metter finalmente via la storiella, buona per addormentare i bambini, dell’innovazione a costo zero.


Dobbiamo avere il coraggio di dire che introdurre innovazione, anche e forse soprattutto quando questa è foriera di maggiore efficienza, costa. Richiede investimenti certi e veloci che potranno, forse, essere recuperati non tanto con risparmi puntuali, quanto con una maggiore qualità del servizio e, quindi, con esternalità positive per tutto il sistema Paese. Per questo servono scelte: scegliere di avere innovazione senza investimenti, facendo conto su un “dividendo dell’efficienza” per pagarsi l’investimento iniziale non sarebbe una scelta. O meglio sarebbe la scelta nel paese del Bengodi. La realtà non è così in nessun Paese al mondo. Le scelte sono difficili perché sono dolorose: si deve scegliere di investire in una cosa e non in un’altra, di scontentare qualcuno. Dobbiamo avere, però, sempre presente, assieme ai numeri prima tristemente elencati, anche il costo della non-innovazione e poi scegliere, perché questo è il compito della politica[12].

Ma puntare sull’innovazione, anche se è un passo necessario e indispensabile, potrebbe non essere determinante se non cambia il contesto in cui usare i nuovi strumenti. Non sono un politico né un tecnico dell’innovazione, ma se avete letto in fila i dati che sopra abbiamo collazionato, non potete che convenire con me che serve una svolta. Si può uscire dalla crisi con modelli vecchi, trascinati dalla ripresa europea o dalla crescita della domanda interna della Cina. Si può crescere con gli incentivi sulle auto, intasando così sempre più le nostre strade, si può crescere incentivando l’arredamento o gli elettrodomestici. O si può provare a uscire dalla crisi investendo sulla mobilità sociale legata al merito, sulla scuola (per cui non ha senso parlare di vincoli di bilancio), sull’università, sulla ricerca, sui talenti e sulle infrastrutture di rete. Si può puntare sulle riforme, sull’innovazione nelle regole, nella gestione delle risorse umane, nella strumentazione hardware e software, nei nuovi servizi. Diversi saranno i modelli di paese che ne deriveranno, diversa la distribuzione del reddito, diversi i comportamenti imprenditoriali. Quel che importa non è il quando, ma il come.

E il come non può che scaturire, appunto, che da una svolta decisa, un cambio di valori e di priorità, un cambio sostanziale di paradigma che porti a condividere un grande patto per lo sviluppo che coinvolga tutte le componenti in un new deal coraggioso che non ponga tempo in mezzo, ma valuti sin da subito ogni azione in vista dell’obiettivo di un nuovo e sostenibile modello di sviluppo basato sull’innovazione. Per gli innovatori della pubblica amministrazione, delle imprese, della cittadinanza organizzata ed attiva, dei governi territoriali è il momento di far fronte comune, di individuare schieramenti trasversali (i conservatori sono in tutte le parti politiche), di imparare dalle migliori pratiche italiane e straniere.

L’Italia non sarebbe la prima a farlo: Finlandia, Irlanda, Sud-est asiatico ci farebbero compagnia nel passato più vicino, California, Taiwan, Silicon Valley in quello più lontano. Più che investimenti servono scelte e coerenza nelle scelte; serve visione del futuro, serve svincolarsi dal consenso immediato.

 

 

2.1 Il ruolo della Pa e i suoi asset

Se la sfida è enorme è chiaro che non si può vincere da soli. Un grande patto per lo sviluppo non può che nascere dal coinvolgimento attivo di tutti gli attori protagonisti della vita di un grande paese: il governo, le imprese, le istituzioni, i cittadini. Noi dal nostro punto di osservazione non possiamo che approfondire quello che dovrebbe essere il ruolo di uno degli attori principali: quello di una pubblica amministrazione moderna in un paese in cerca di futuro.

 

La PA per la qualità della vita

 

Come ho più volte ricordato, in questa partita la pubblica amministrazione gioca una parte decisiva. Già nel 2005, quando la crisi era ancora lontana, Jeremy Rifkin descrive così, nel suo bel libro "Il sogno europeo" l'attenzione tutta "europea" per la qualità "comunitaria" della vita: "Il Sogno europeo pone l'accento sulle relazioni comunitarie più che sull'autonomia individuale, sulla diversità culturale più che sull'assimilazione, sulla qualità della vita più che sull'accumulazione di ricchezza, sullo sviluppo sostenibile più che sull'illimitata crescita materiale, sul "gioco profondo" più che sull'incessante fatica, sui diritti umani universali e su quelli della natura più che sui diritti di proprietà, sulla cooperazione globale più che sull'esercizio unilaterale del potere.

Se è vero quanto proposto profeticamente da Rifkin, alla Pubblica Amministrazione, nei Paesi di democrazia "europea", è affidato un ruolo importante e delicato nella dialettica democratica: restituire valore ai cittadini e alle imprese che pagano le tasse, sotto forma di innalzamento della loro qualità della vita. Se questo era vero cinque anni fa, lo è a maggior ragione ora quando anche in sedi ufficiali, e non solo tra i teorici della decrescita, si comincia a parlare dell’insufficienza del PIL per giudicare le economie e quando cresce l’attenzione ai beni relazionali e al capitale sociale

 

Gli asset della PA

Nel sottolineare il ruolo chiave della PA non parliamo certo di una PA onnicomprensiva, vorace e invadente che sottopone tutto al suo vaglio, ma una di una PA responsabile del benessere dei territori e dei cittadini. Una PA che, spostatasi ormai dai remi al timone, possa però aver chiara la rotta verso una società inclusiva, solidale, garante dei diritti e delle diversità, attenta alla sostenibilità dello sviluppo.
La pubblica amministrazione arriva a questo appuntamento con delle leve importanti:

  • il nuovo assetto normativo del decreto legislativo Brunetta (D.Lgs. 150/09) centrato su valutazione, trasparenza e premialità. Molto c’è ancora da fare per la sua attuazione, ma la legge è un punto fermo significativo: ora è necessario accompagnare con tenacia la sua implementazione e agire per un suo processo di miglioramento costante in vista di decreti correttivi che ne migliorino l’utilità;
  • un corpus di dipendenti pubblici di grande professionalità che, nella grande maggioranza, sono consci della responsabilità che hanno in questo passaggio storico; ma che sono frastornati da campagne medianiche, ma anche politiche, denigratrici e spesso non vedono coerenza nei comportamenti della loro dirigenza amministrativa e politica;
  • un parco di tecnologie hardware e software sufficienti per una ripartenza del processo di modernizzazione, sempre che siano usate con una regia attenta e con un disegno coerente

Sono le leve che la pubblica amministrazione deve usare per scardinare i vecchi modelli consolidati e sostenere i processi di modernizzazione in atto.

 

La centralità del territorio per uscire dalla crisi con una visione condivisa del futuro

Per rafforzare il ruolo dei territori e degli enti territoriali

Uno dei rischi peggiori di una crisi vissuta senza visione di medio-lungo periodo è quello di serrare le fila e di pensare che federalismo fiscale, politico e amministrativo; ruolo chiave dei territori; democrazia partecipativa ecc. siano tutti lussi per periodi di vacche grasse e che ora sia, invece, il momento di un centralismo (economico, ma soprattutto finanziario) più marcato.
Sarebbe un errore clamoroso, di cui per altro si vedono tracce evidenti (dall’abolizione dell’ICI ai tagli del Fondo per le spese sociali dei comuni a favore di attività centralizzate tipo social card) e tentazioni palesi.
Io credo invece che sia questo il tempo di coniugare sempre più autonomia, responsabilità e partecipazione e di farlo lì, nelle comunità territoriali, dove l’azione politica si sposa con la vita quotidiana dei cittadini, con i servizi fondamentali della salute, della mobilità, dell’istruzione, della rete relazionale.
Credo che sia quindi il tempo di tirar fuori dalle scatole, in cui erano stati frettolosamente riposti ai primi rintocchi della crisi, i piani strategici, i progetti visionari, l’immaginazione intelligente e concreta dello sviluppo dei territori. E di farlo con le comunità di innovatori che, dentro e fuori le amministrazioni pubbliche, dentro e fuori le imprese, le università, le aggregazioni politiche, i distretti tecnologici, stanno misurandosi con i temi dell’innovazione.[13

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