Ancora sul Black Panther Party, sulla memoria storica, e sullo Stato

Posted on - 24 gennaio 2013 at 14:55

Ancora sul Black Panther Party, sulla memoria storica, e sullo Stato

Se a distanza di pochi mesi torniamo a parlare nuovamente del Black Panther Party, non e’ per ragioni di nostalgia o di accademia. Siamo piuttosto convinti che in quell’esperienza sia possibile riscontrare tratti caratteristici ed esemplari dei processi di scontro tra le classi da cui è possibile trarre significativi insegnamenti. Le Pantere Nere hanno rappresentato un movimento che e’ riuscito a dialettizzarsi e ad attualizzare con invidiabile creatività l’esperienza che veniva dai movimenti rivoluzionari e di liberazione. Questa loro capacità di immaginazione, di vicinanza con il proprio soggetto sociale, ne fa un esempio per i compagni di ogni epoca. Tuttavia non vogliamo di certo sostenere che la storia del Bpp sia scevra da contraddizioni o da errori. Ma, d’altronde, quale movimento può dirsi esente da problemi o sbagli? Nel loro periodo più avanzato le Pantere approderanno ad atteggiamenti da gangester all’interno del ghetto o a precauzioni paranoiche anche contro i militanti della prima. Sicuramente anche sotto questo profilo la storia delle pantere andrebbe riscoperta.
Ma per ora, con questo contributo, vorremmo porre nuovamente l’accento su quanto messo in campo dalle forze repressive per annientare le pantere, sulle strategie di controrivoluzione preventiva, innanzi alle quali le stesse leggi dello stato non hanno alcun valore. Crediamo che sia tutt’altro che un’esercizio speculativo perché le similitudini con la realtà attuale sono autoevidenti.
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Uno degli errori in cui tutti noi compagni (nessuno si senta escluso…) siamo imprigionati in questa fase è senz’altro quello di una mancanza di dialettica con la realtà storica di cui dovremmo essere interpreti. Approcci differenti al medesimo errore finiscono per non far porre domande sulla fase storica e sulle esigenze che abbiamo da mettere in campo attualmente. Crediamo che scavare nella nostra storia, possa dare un piccolo contributo per favorire dibattiti e discussione di cui i pecchiamo in questo momento. Ecco perché vi propiniamo un altro piccolo pezzo della storia dell’organizzazione fondata da Bobby Seale e Huey Newton nell’ottobre del 1966 che ha sicuramente nel celebre “ten-point program”, alcuni degli elementi dell’incredibile riscontro di massa che ebbe in quegli anni. Quanto il programma in dieci punti fosse espressione delle esigenze degli abitanti dei ghetti lo abbiamo già accennato altrove in merito al lavoro di autodifesa delle comunità nere ed è nostro obiettivo produrre qualcosa di specifico su di esso. Nelle pagine che seguono ci vogliamo però soffermare maggiormente sulle campagne repressive che la macchina governativa statunitense ha sviluppato per distruggere il Bpp che nel settembre del 1968 l’allora direttore dell’FBI J. Edgar Hoover, definì “the greatest threat to the internal security of the country” (la più grande minaccia alla sicurezza interna della nazione). Repressione che raggiunge il suo piu’ alto livello di sfacciataggine nell’omicidio di Fred Hampton, come discuteremo in seguito, e le cui dinamiche troppo spesso assomigliano alle dinamiche repressive di casa nostra.
Infatti molto si e’ scritto e detto dopo i recenti processi farsa contro i fatti di Genova 2001 e gli scontri del 15 ottobre 2011 di piazza San Giovanni a Roma. Processi che da una parte hanno impugnato il reato di “saccheggio e devastazione” per combinare pene esemplari ai compagni che erano in piazza, e dall’altra sostanzialmente assolvono la repressione della polizia italiana anche dall’omicidio. Non dobbiamo però lasciarci distrarre dalle specificità dei riti processuali finendo per non cogliere l’elemento fondamentale: lo Stato, se minacciato utilizza ogni mezzo possibile nel momento storico dato per difendersi, dall’altro si assolve sistematicamente quando le necessità repressive superano le sue stesse leggi. D’altronde una assoluzione sistematica ed incondizionata è condizione necessaria a che lo Stato possa davvero porre la propria difesa al di sopra delle leggi e come elemento da perseguire a tutti costi. Nulla di sorprendente, dunque. La nostra storia è piena di queste assoluzioni: dal 12 dicembre al San Paolo in una scia di sangue irreparabile. Quello che troviamo sorprendente è che a questo stato e nelle sue istituzioni qualcuno continua a riporre fiducia. Una fiducia che tra la gente comune è ai minimi storici e che tra i movimenti invece pare spopolare. Questo è il paradosso degli ultimi anni.
A tal proposito l’assassinio di Fred Hampton il 4 dicembre 1969 si presta come esemplificativo. L’ennesimo caso in cui le pratiche extralegali e le dinamiche di auto-assoluzione dello Stato borghese si manifestano in maniera cristallina. Fred Hampton era appena 21enne quando fu assassinato. L’operazione, organizzata e ordinata dal Cointelpro ed eseguita dagli agenti della Chicago Police Department (CPD che e’ storicamente nota per le sue pratiche brutali e altamente razziste al pari delle forze di polizia newyorkesi, NYPD, e di Los Angeles, LAPD), travalica, come già accennato, anche i limiti della legalità borghese e si conclude, come da copione, con una completa assoluzione delle forze di polizia.
Fred Hampton era un giovanissimo quadro delle Black Panther Party che in breve tempo era risucito a “fare carriera”, passando da una militanza locale e di quartiere ad un ruolo influente a livello nazionale. Le sue spiccatissime doti di leader e oratore, al pari delle sue capacita’ organizzative e di connessione con le masse, ne fecero il leader della sezione delle BPP di Chicago ad appena 20 anni. Grazie anche al suo contributo le BPP a Chicago avevano enormemente incrementato il proprio supporto, allargando la propria influenza politica ai più svariati gruppi politici: da quelli a sostegno dell’indipendenza Portoricana (the Puerto Rican Young Lords) a chi lottava per l’autodeterminazione delle comunità indigene (the white Appalachian Young Patriots). Ed in particolare erano riusciti nell’opera di ricucire i rapporti tra i giovani sottoproletari, separati dall’appartenenza alle gang. Neri, cinesi, portoricani guardavano al Bpp di Hampton come un punto di riferimento credibile. Quando venne arrestato per aver rubato dei gelati e averli regalati a dei bambini del quartiere e mobilitazioni in città furono enormi. In poche parola, Fred Hampton era uno tra i più prominenti candidati a diventare ciò che l’FBI doveva prevenire a tutti costi, per esplicito mandato di Hoover: “a Black Messiah who could electrify Black Nationalist Hate Groups” (un Messiah nero che potesse dare nuova energia ai gruppi nazionalisti neri). Ed e’ per questo che a soli 21 anni fu barbaramente assassinato nel suo letto.
Come detto, l’operazione fu ideata e pianificata dal Cointelpro su cui è necessario spendere due parole. Inaugurato negli anni Cinquanta e attivo fino alla meta’ degli anni Settanta, rappresenta l’istituzionalizzazione del diritto dello Stato a difendersi con ogni mezzo e maniera. La possibilità, messo nero su bianco, di difendere la classe dominante a qualunque costo e a dispetto di qualunque legge dello Stato.
Sotto il nome di Cointelpro andavano tutte le azioni di contro-spionaggio, eseguite sia dal FBI che dalle varie polizie locali, atte alla distruzione di qualunque organizzazione politica nazionale al fine di preservare “la sicurezza interna”. Il Cointelpro rappresentava una propagazione domestica della CIA (Central Intelligence Agency) che storicamente opera invece esclusivamente su scala internazionale. Anche le operazioni si ispiravano alla CIA, non soltanto assumendo il profilo del contro-spionaggio ma anche nella semplicità con cui travalicavano sistematicamente ogni confine legale. Chiaramente all’epoca dei fatti il programma Cointelpro non era sui libri di storia, e la sua esistenza veniva sistematicamente negata dalle massime cariche governative e da Hoover stesso.
Sotto indicazione del Cointelpro, la polizia di Chicago organizza un raid all’alba del 4 dicembre 1969. La casa in cui dormivano pantere viene circondata e bersagliata da ogni parte. Nell’assalto perde la vita anche un altro compagno delle Chicago Black Panthers, Mark Clark. Le altre pantere presenti al momento del raid vennero arrestate e la cauzione per la loro libertà fissata a centomila dollari. Nei giorni seguenti, assistiamo alle consuete dinamiche in cui la CPD tenta di dipingere l’azione come risposta necessaria delle forze di polizia all’aggressione armata dei militanti delle Pantere Nere, il tutto chiaramente amplificato dalle principali testate giornalistiche. Successivamente alcuni reporter indipendenti decostruirono le prove della polizia a supporto della teoria dell’autodifesa da un assalto delle pantere. Tra i migliaia di neri che si recarono in visita della casa, prontamente impacchettata dalla polizia, i membri della Afro-American Patrolmen’s League si convinsero che si trattasse di un “omicidio politico” e diedero vita da una inchiesta alternativa. Intanto le mobilitazioni portarono il ministro della Giustizia a convocare un Grand Jury che accertasse le dinamiche dell’omicidio. Vennero subito alla luce le menzogne della polizia e le accuse nei confronti delle sette pantere caddero del tutto, anche se nessuno dei poliziotti venne inquisito. Per scoprire la verità si dovranno attendere i risultati della commissione indipendente Wilkins-Clark la quale appurò che ai 99 colpi sparati all’interno dell’edificio dalle forze di polizia, i compagni risposero con un singolo colpo, con ogni probabilità sparato da Mark Clark (che era nell’ingresso di guardia) in un gesto inconsulto più che un tentativo di rispondere al fuoco assassino della CPD. Risultò inoltre chiaro che il corpo di Hapton venne spostato di alcuni metri e sistemato in prossimità della porta per dare il senso di un’offensiva. In realtà il presidente delle pantere dell’Illinois morì nel suo letto e la sua compagna testimoniò di non essere riuscita a svegliarlo neppure quando decine di colpi da sparo tuoneggiavano all’interno dell’edifico. La ragione era che qualcuno lo aveva drogato; l’autopsia rilevò infatti una quantità enorme di barbiturici nel suo sangue. Eppure l’ostilità verso qualunque droga di Hampton era risaputa. Per riuscire a stabilire ogni dettagli dell’omicidio occorreranno delle commissioni civili (che escludevano a prescindere la perseguibilità dei poliziotti assassini) che termineranno i propri lavori nel 1982 con un risarcimento alle famiglie di Hampton e Clark di circa un milione di dollari. A quel tempo si comincerà a parlare del ruolo del Cointelpro e si renderà noto anche il nome dell’infiltrato che non solo aveva provveduto a drogare Hampton a cena e ma si era premurato anche di fornire alla polizia una mappa dettagliata della casa con specifico riferimento ai letti in cui dormivano le varie pantere. Si trattava di O’Neall, un pregiudicato, arruolato dalla polizia come infiltrato nel Bpp per uno stipendio di 575 dollari al mese e la cancellazione dei propri reati. In breve tempo O’Neall riuscì a scalare i livelli dell’organizzazione e divenire nientemeno che la guardia del corpo di Hampton. Queste sono solo alcune delle incredibili scoperte delle commissioni d’inchiesta che lasciano chiaramente percepire fin dove lo stato possa e voglia spingersi per annientare qualsivoglia afflato rivoluzionario. Questa storia ci aiuta anche a evidenziare come il Cointelpro fosse assolutamente organico alle più elevate agenzie repressive degli Stati Uniti e che non si può e non si deve parlare di singole mele marce o di apparati deviati come qualcuno cerca di fare qui in Italia.
Per questa ragione crediamo che la memoria storica serva, ancora una volta, a ricordarci che non può esistere alcuna compatibilità tra gli sfruttati e gli organismi di uno stato basato sulla difesa di quel medesimo sfruttamento.

In memoria di Fred Hampton, ucciso all’età di 21 anni perché comunista.
Antifa Resistance
Sarri 27

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Huey P. Newton e le Pantere Nere

Posted on - 30 ottobre 2012 at 10:31

In difesa dell’Autodifesaspacer

Il 28 ottobre del 1967 l’agente Frey del dipartimento di Oakland in California comunica via radio alla centrale: “Abbiamo fermato una macchina delle Pantere!”. Non era certo una novità, né un evento fortuito, dato che le pattuglie di polizia giravano regolarmente con le fotografie dei membri del Black Panther e con i rispettivi numeri di targa annotati. Certo il fatto di aver fermato sulla settima strada proprio il tanto odiato Huey P. Newton, “Ministro della Difesa” delle Pantere contribuisce a spiegare quantomeno l’entusiasmo dell’agente. Ma ciò che renderà celebre quella comune operazione di intimidazione sarà che a distanza di pochi minuti Frey sarà morto mentre il suo collega e lo stesso Newton risulteranno feriti, quest’ultimo in modo grave. A più di trent’anni dall’accaduto ci teniamo a spendere due parole per quello che quella storia ha rappresentato per generazioni di ragazzi dei ghetti e per i compagni di ogni latitudine.
Ma per farlo dobbiamo chiedervi di risalire con noi ancora un po’ più indietro, per inquadrare il contesto sociale e politico in cui le Pantere affondarono gli artigli; siamo consapevoli di non poter dar vita ad un ragionamento complessivo su un argomento di tale complessità e vastità, pertanto cercheremo di orientare il baricentro esclusivamente su quegli elementi necessari per la comprensione di ciò che accadde quel 28 ottobre e del successivo processo a Huey.
Sia Huey P. Newton che Bobby Seale avevano frequentato gli ambienti universitari di Berkley e le organizzazioni politiche che costituivano il variegato arcipelago del “Potere Nero”. Ed entrambi ne erano rimasti delusi, finendo per prenderne le distanze. Ciò che sopra ogni cosa lamentavano delle componenti politiche dell’universo Nero era da un lato l’insistenza su elementi prettamente culturali e razziali che impedivano di inquadrare il razzismo come una componente del sistema capitalista, dall’altra l’assenza di una pratica in grado di confrontare con la realtà le varie posizioni politiche. Nel celebre programma in dieci punti, il messaggio che le Pantere volevano far passare era che esisteva qualcuno che fosse disposto a svestire i panni del filosofo africanista e imbracciare le armi per difendere la propria comunità, vittima di efferate, continue ed immotivate violenze da parte della polizia. Non a caso, proprio il punto riguardante l’autodifesa, le Pantere lo ripresero (praticamente parola per parola) da quello del Nation of Islam. La differenza stava tutta nella volontà di muoversi per realizzare questi propositi. Così cominciarono a far circolare i volantini ed il programma del Partito, ma ciò che fece davvero la differenza, accreditando le Pantere agli occhi della comunità come un interlocutore credibile ed affidabile fu il patrolling, il pattugliamento armato delle strade dei ghetti. Come accade in moltissimi quartieri popolari di ogni città del mondo, il governo nei ghetti era rappresentato dalla polizia che esercitava il proprio controllo assoluto con un paradigma repressivo basato sulla violenza cieca. In alcune zone esisteva un programma comunale di tutela, sorto in seguito ad alcuni riot. La Community Allert Patrol, ad esempio, era un programma nato in seguito alle rivolte del 1965 a Watts; esso prevedeva la possibilità per i residenti di chiamare la centrale del CAP per segnalare un’operazione di polizia in corso ai danni di cittadini neri. Il CAP poteva inviare una sua auto i cui membri disarmati avrebbero assistito al comportamento della polizia, illustrando agli abitanti i propri diritti. La decisione di pattugliare armati le strade dei ghetti venne bandita ed etichettata come “suicida” dalle altre componenti politiche dell’universo del “Potere Nero”. Sarà invece determinante per la visibilità, l’arruolamento e la fiducia che la gente cominciò a riporre in questi giovanissimi, spavaldi, ragazzi. Con queste parole Newton descriverà le operazioni di pattugliamento: “La polizia non poteva fare nulla e la gente poteva constatare che la difesa armata era un diritto legittimo e costituzionale. In questo modo lasciavano perdere i loro dubbi le paure, ed erano in grado di agire contro il loro oppressore”; “Il più delle volte, quando un poliziotto ci vedeva arrivare, metteva in tasca il suo taccuino, montava nella sua macchina e se ne andava velocemente”. In queste parole si capisce la ragione dell’insistenza del Partito sulla questione dell’autodifesa; posta in questi termini significava infatti la possibilità di guadagnarsi una vita normale senza i più brutali dei soprusi.

Nemico pubblico numero 1
Analizzare il comportamento delle forze repressive nei confronti del BPP necessiterebbe di uno studio approfondito per l’articolazione e la strategia messa in piedi, ma anche per l’odio viscerale che gli agenti più comuni nutrivano per chi osava sottrargli il monopolio della giustizia (o della violenza, che poi è la stessa cosa) nei ghetti neri. Il piano del FBI “Cointelpro” venuto alla luce quando ormai il declino delle Pantere era prossimo, svela punto per punto il programma messo in campo per annientare il nemico. Scorrendo quei documenti ci si rende conto che nulla restò intentato nella causa della lotta al BPP: dalla denigrazione alla persecuzione, dall’arresto ingiustificato fino all’omicidio premeditato come nel caso di Bobby Hutton o di Fred Hampton. Il direttore del FBI nonché ideatore del programma, Edgard Hoover, stilò una serie di punti e temi da seguire e da applicare di volta in volta per screditare e cancellare il BPP. Le Pantere divennero in breve tempo il nemico pubblico numero 1 degli Stati uniti d’America.
Una commissione d’inchiesta del Senato nel 1976 espresse il suo parere in merito al Cointelpro sostenendo che l’FBI “incaricato per legge di investigare sui crimini e di impedire i comportamenti criminali, si era impegnato in tattiche illegali e aveva risposto a problemi sociali profondamente radicati fomentando la violenza…”
A questa scientifica linea di guerra si affiancava anche il furore con cui le polizie locali si scagliarono contro il movimento. La polizia di Oakland aveva già di per sé fama di essere una delle più brutali degli Stati Uniti. Più volte, contro gli studenti aveva dimostrato le proprie efferatezze. I loro interventi nelle università avevano fatto gridare allo scandalo numerose personalità della cultura. In realtà quelle immagini, per la prima volta trasmesse e sotto gli occhi di tutti, non stupirono affatto le comunità nere, a cui quel trattamento era riservato abitualmente.
Nelle fila della polizia di Oakland erano moltissimi gli aderenti alla John Birch Society, un’organizzazione razzista di estrema destra e più di un agente dichiarò che il materiale propagandistico circolava liberamente nelle centrali e anche di aver subito pressioni dai propri superiori per iscriversi all’organizzazione. Un poliziotto rilasciò una dichiarazione al giornalista G. Marine, autore di un testo sulle BPP, “Più faccio il mio mestiere e più mi sento a destra. Impossibile evitarlo per uno che veste l’uniforme… Quasi tutte le informazioni vengono da fonti della polizia, e devi compiere uno sforzo continuo per ricordarti che si tratta per lo più di distorsioni della verità.”

Denzil Dowell
Molti dei neri della vicina Richmon in realtà abitavano in sobborghi considerati zone “non incorporate”, cioè non integrate in una specifica struttura municipale e che di conseguenza non godevano di alcun beneficio in termini di servizi riservati ai cittadini urbani. A mantenere l’ordine in questi territori ci pensava lo sceriffo di Richmond attraverso alcuni agenti “delegati”. Proprio in una di queste zone un poliziotto sparò ed uccise Denzil Dowell, un ragazzo ventiduenne. La polizia sostenne che il giovane aveva cercato di svaligiare un appartamento e che poi, sorpreso in flagrante, si fosse dato alla fuga cercando di scavalcare un cancello.
Tutti sapevano, però, che Denzil zoppicava vistosamente per via di una lussazione all’anca e che questo gli avrebbe reso impossibile darsi alla fuga o addirittura scavalcare un cancello. Così, i familiari e gli amici diedero vita ad un’azione finalizzata ad ottenere la riapertura delle indagini. George, il fratello, si mise in contatto con le Pantere che il giorno dopo apparvero nella zona armate ed in divisa cominciando a dar vita ad una contro-inchiesta. In breve tempo scoprirono che non esisteva alcun tentativo di effrazione nelle case circostanti, che i fori dei proiettili a detta del medico legale erano sei e non tre come scritto dalla polizia e che nel luogo in cui fu ritrovato il corpo di Denzil non c’era neanche una goccia di sangue, benché fosse morto dissanguato. Sangue c’era, e molto, in un’altro punto, lontano almeno una ventina di metri dalla cancellata. Con i parenti, gli amici e gli abitanti delle case limitrofe le pantere analizzarono i fori dei proiettili sui muri. Il giovane non era armato, neanche la polizia aveva osato dichiarare che si fosse trattato di legittima difesa, eppure i fori dei proiettili sul suo corpo dimostravano in maniera evidente che fosse stato ucciso mentre teneva le mani alzate e fosse rivolto verso i suoi assassini. Le Pantere organizzarono un comizio nella zona, con queste parole lo ricorda Bobby Seale: “Dicemmo loro (gli abitanti del quartiere) che saremmo intervenuti per spiegare perché si dovesse far ricorso alle armi per difendere noi stessi, visto che quei maiali di poliziotti razzisti spadroneggiavano nella nostra comunità, uccidendo i nostri fratelli e sorelle. Il fratello Denzill Dowell era stato assassinato, e da informazioni ottenute risultava che altri due o tre fratelli fossero stati al pari uccisi, in quello stesso quartiere, nel dicembre precedente.” Il 18 aprile un contingente delle Pantere scortò un gruppo di cittadini presso il procuratore di Richmond. Il procuratore si disse disposto a condurre delle indagini e a sospendere il poliziotto accusato dell’omicidio anche se questa decisione spettava direttamente allo sceriffo Young. Come prova della sua bona fede il procuratore fissò direttamente un appuntamento tra lo sceriffo e la comunità di cittadini. Quando però il gruppo giunse all’ufficio dello sceriffo trovarono ad accoglierli sull’uscio uno spropositato numero di agenti che pretendevano, contrariamente a quanto affermato dalla legge, che nessuno potesse entrare armato nell’edificio. A questo punto le Pantere scelsero per una soluzione per cui non avevano mai optato in precedenza e a cui non si sarebbero mai facilmente rassegnati: deposero le armi. Questo gesto significò moltissimo per i cittadini presenti che videro mettere in primo piano gli interessi della comunità rispetto a quelli del Partito. Il fratello di Denzil in seguito a questi avvenimento entrerà nelle Pantere e ne diventerà un membro importante della sede di Richimond: “Ora mi sento davvero uomo e agisco da uomo”.
L’impatto che ebbe sulla comunità questo tipo di lavoro fu immensa. Per la prima volta ci si trovava davanti ad un gruppo di neri decisi a difendere a costo della vita gli abitanti del ghetto e capaci di dare respiro organizzativo alle legittime aspirazioni di giustizia che provenivano dagli strati più bassi della società. Il connubio tra l’autodifesa della comunità e l’inchiesta finalizzata al ristabilire la verità divennero una minaccia enorme per un sistema che si basava su sfruttamento, violenza e menzogna. La capacità che avevano le Pantere di dimostrare che nulla doveva dirsi immutabile, che tutto ciò che veniva considerato impossibile da pensare e suicida da realizzare doveva essere osato, fu il vero campanello d’allarme che portò CIA ed FBI a lavorare instancabilmente per annientarle. Anche una per una.

Zio Sam dice che sono un diavolo con le corna

Una volta, mentre camminavano per Oakland, Newton propose a Bobby Seale di salire sulla sedia di un tavolino di un bar e di recitare qualcosa affinché la gente potesse ascoltarlo. Bobby, che aveva un passato da attore, improvvisò “Zio Sam dice che sono un diavolo con le corna” un suo testo aperto che si prestava ad una serie di improvvisazioni e trasformazioni. Neanche a dirlo intervenne la polizia aggredendo i ragazzi che finirono in galera. Ma la cosa significativa è che durante il processo di Newton l’America si rese conto di avere a che fare non con un demonio ma con un giovane dall’eloquio facile, intelligente, politicamente e giuridicamente preparato. Paradossalmente quel processo offrì una grande tribuna alle Black Panther, le quali ebbero modo di farsi conoscere anche da chi non era nelle immediate vicinanze del ghetto. A questo si aggiungano gli sforzi dei compagni all’esterno del carcere che lavoravano alacremente alla campagna per la liberazione. In questo periodo si registra il maggior impegno delle Pantere nella costruzione di alleanze con le organizzazioni di bianchi.
Tornando alla notte dell’arresto di Huey, la polizia sostenne che Newton fosse stato fermato in compagnia di un’altra persona, mentre era in possesso di una pistola illegalmente detenuta e di un certo quantitativo di marijuana. Il racconto prosegue con Newton che cerca di spacciarsi per un’altra persona che scende dall’auto che ruba la pistola all’agente, lo uccide e poi ingaggia un conflitto a fuoco con l’altro poliziotto (Herbert Heanes) da cui risulteranno entrambi feriti. Niente di più semplice.
L’uomo che era con Newton riesce a caricarlo sull’auto e a farlo portare in ospedale. Huey era stato colpito al ventre cinque volte e il sangue gli usciva a rivoli quando arrivò mezzo morto al Kaiser. Lì un gruppo di poliziotti lo ammanettò al lettino facendolo contorcere dal dolore e lo colpì ripetutamente sul torace e sulla testa. Intanto i medici lasciavano tranquillamente correre e Newton dovrà aspettare venticinque minuti per ricevere cure. Al processo l’infermiera bianca sosterrà di non aver prestato le cure al ferito “per il modo insistente in cui gliele chiedeva”.
Nel processo le dinamiche della sparatoria non verranno mai chiaramente definite; ciò che risultò chiaro fu che H. Heanes non era un testimone attendibile date le innumerevoli versioni, omissioni e contraddizioni che contraddistinsero la sua presenza al dibattimento e che Frey era noto per essere un razzista ed un violento.
La versione dell’accusa aveva tanti di quei lati deboli per cui sarebbe impossibile occuparsi della questione; diremo soltanto che nessuno riuscì a stabilire chi vi fosse al fianco di Newton quella sera finché la pantera Gene Mcknney si presentò in tribunale come testimone della difesa, sostenendo di essere lui l’uomo che si trovava nell’auto con Huey, negando che i fatti si fossero svolti come sosteneva l’accusa. A tutte le altre domande si rifiutò di rispondere perché qualunque altra risposta avrebbe fatto sì che si aprisse un procedimento ai suoi danni. Il legale delle Pantere, insistette sulle ragioni razziste che sottintendevano al processo e che lo viziavano apertamente, partendo dalla selezione della giuria ai membri del Gran Giurì. Inoltre, chiamò numerosi studiosi dei fenomeni sociali i quali a lungo espressero le proprie posizioni sul razzismo inconscio e sulle fondamenta razziste della società. A specifica domanda, il sociologo Blauner rispose che il solo modo in una società razzista di evitare un processo razzista sarebbe stato estromettere i bianchi dalla giuria. In realtà la giuria nel caso di Huey era interamente bianca con la sola eccezione di David Harper che era nero. Alla fine Newton fu assolto dall’accusa di omicidio volontario e di aggressione contro Heanes per cui rischiava la camera a gas ma fu condannato per aver sparato in “un impeto d’ira”, senza aver l’intenzione di uccidere e “senza avere intenzioni criminose”. Da questa ambigua condanna risulta chiaro tutto il carattere politico del processo. Una volta posto nell’impossibilità di condannare Newton, il tribunale non lo assolve. Subito dopo la sentenza una pattuglia della polizia fermò l’auto proprio di fronte alla sede del BPP e fece fuoco con pistole e fucili, cercando di fare giustizia.
Da parte sua, il “Ministro della difesa” si preoccupò di assolvere a sua volta il comportamento di David Harper che da più parti era indicato come uno “Zio Tom”. In una lettera dal carcere scrisse “Fratello Harper ha creduto di agire come dovrebbe chi ami la comunità. Di conseguenza, io chiedo a questa gente che qualora nel semestre prossimo egli si trovi, come è probabile, ad insegnare al City College, lo si faccia oggetto di tutto il rispetto dovuto ad un uomo nero.”

Giustizia è impossibile
O Conclusioni impossibili

Quando Huey uscì finalmente dal carcere, ad accoglierlo trovò un’imponete manifestazione di più di diecimila persone. Il partito aveva investito moltissimo nella sua liberazione e le aspettative erano altissime. Le Pantere erano molto cambiate da quando Newton era stato arrestato, avevano assunto un profilo nazionale e si sforzavano di mantenere una uguaglianza nell’ideologia e nella pratica. La cosa più significativa della campagna fu che essa coinvolse una fetta di società che andava ben al di là dei giovani del ghetto o degli attivisti bianchi. E’ un elemento da non sottovalutare perché la campagna per la liberazione si sviluppava in un contesto di incertezza in cui le dinamiche dei fatti non erano affatto chiare. Non si trattava di un nuovo caso “Sacco e Vanzetti” in cui l’ingiustizia perpetrata era evidente.
Si trattava di riconoscere che giustizia era impossibile.
E così quella compagna assunse in tutto e per tutto il profilo di una critica radicale al sistema americano.
Non rientra nell’oggetto di queste poche pagine soffermarsi sull’epilogo delle Pantere, sulle divisioni tra Newton e Cleaver e via dicendo.
Possiamo però spendere alcune parole per sottolineare che se gli sforzi della repressione americana diedero i suoi frutti, cancellando il partito, ammazzando i compagni o bombardando le sedi, non riuscirono tuttavia a cancellare dalla memoria lo spazio critico da loro aperto né a rimuovere dalla storia l’esempio che essi rappresentano. Ancora oggi, si sostiene che gli Usa non abbiano mai visto la guerra spostarsi sul proprio territorio se non l’11 settembre del 2001. Alla luce di quanto messo in campo dalle forze repressive contro le organizzazioni di classe, possiamo considerare che la guerra nel territorio Usa c’è sempre stata e continua ad esserci.
Il processo di incarcerazione di massa che dagli anni Ottanta è stato inaugurato dalla presidenza Reagan facendo sì che il carcere divenisse la quarta città più popolosa degli Usa con quasi tre milioni di abitanti rende palese lo stato dello scontro. All’interno di questa dinamica repressiva la componente razziale è evidente già solo dando uno sguardo alle statistiche.
Se, accanto al processo a Huey, abbiamo riportato anche il caso di Denzil Dowell è perché esso rappresenta, nella brutalità e nella risposta dei compagni qualcosa di quanto mai attuale. Ci è impossibile non pensare a Chucchi, Aldrovandi, Uva e tutti gli altri. E’ importante mettersi in discussione e chiedersi cosa noi tutti possiamo fare per riuscire a far emergere la verità e per scollare la fiducia nelle istituzioni. Esperienze in questo senso sono state percorse in Germania con il lavoro fatto dai compagni con i familiari e gli amici di Dennis Jäckstedt, ammazzato a sangue freddo dalla polizia. In seguito a quella campagna, la famiglia di Dennis ha dato vita ad un’associazione che si propone di aiutare le famiglie che si trovano a vivere drammi analoghi. Se riportiamo questo esempio è perché dimostra che sia possibile sedimentare ed ampliare la voglia e la necessità di non considerare Giusto ciò che sostiene la giustizia. Esperienze di questo tipo stanno prendendo forma anche qui in Italia grazie all’impegno di alcuni compagni e alla determinazione delle famiglie delle vittime. Passa anche da qui il lavoro dell’autodifesa della classe da un esercito che sempre più occupa i nostri territori, i nostri spazi e quella parte della vita che non buttiamo in qualche posto di lavoro facendo arricchire qualcun altro.

Osare Combattere, osare Vincere.

Antifaresistance
Sarri 27

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Zerocalcare a Napoli! Presentazione di “Un polpo alla gola” per l’inaugurazione del Sarri 27!!

Posted on - 29 ottobre 2012 at 14:05

Presentazione del libro con l’autore, aperitivo e musica per l’inaugurazione del Sarri 27, il nuovo locale al centro di Napoli dove troverete materiale resistente da indossare, leggere, vedere, appendere, pensare…
spacer
da ink4riot.altervista.org una piccola autobiografia di Zerocalcare: preparatevi le domande da fargli!

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[#drammatico preludio] Zc, giovane e promettente talento capitolino, infrocia violentemente con il mondo del lavoro salariato. Preso atto dell’incompatibilità anche a breve termine (figuriamoci a lungo) con questa dimensione, il Nostro si prodiga nella ricerca di loschi sotterfugi per svoltare da vivere nella città con gli affitti più alti d’Europa, mortacciloro.
“Non rimarrà niente di ciò che siamo , ribelli al nostro destino/
piccola minaccia in un tempo sbagliato”.
Tempo più sbagliato del ventunesimo secolo è difficile immaginarlo, non ci sono più diligenze da rapinare, lo spaccio come forma di autoreddito cozza troppo con la rigida morale straight edge, e il “punk” sta su Emtivì. Da qui, l’idea di disegnare per campare. Aspettando la rapina del secolo.

[#e prima? e mo'?] L’imberbe Zc si trova così a disegnare illustrazioni di libri per fanciulli e mentecatti, locandine e manifesti attacchinati in quartiere malfamati, flyer distribuiti nelle più sordide occasioni, fumetti per fumose fanzine di località lontane. In questo momento disegna strisce per un giornale che non ha mai comprato e nemmeno visto, e manifesti per un’ente che non si dice che se scoprono sto sito magari lo licenziano.

[#embé? e al popolo?] Il popolo dovrebbe sapere che Zc esiste e disegna in modo che, invece di arricchire le multinazionali dell’illustrazione, si dia lavoro anche al buon Zc che a prezzi stracciaterrimi e miserabili è felice di allietare fanzine manifesti flyer tatuaggi copertine di dischi libretti dei cd siti internet ecchippiunneappiunnemetta con i suoi scarabocchi. Garantiti ricchi premi e cottillon per ringraziare di aver scelto Zc.

[#copirait, chi era costui?] Da bravo ggggiovane troppo ribbbelle e alternativo Zc sostiene la libera circolazione delle idee, detto questo Zc ha trovato i suoi fumetti su un sito nazi e questo non va bene, quindi Zc comunica che sarebbe ben felice di essere contattato e messo al corrente dell’uso che viene eventualmente fatto dei materiali presenti su questo sito.

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Lander Askatu!

Posted on - 28 settembre 2012 at 15:49

spacer La mattina del 13 giugno 2012, nel cuore di Roma, un’imponente operazione di polizia che vede coinvolti quindici agenti armati e con il volto coperto porta all’arresto di Lander Fernandez, cittadino basco che vive apertamente in Italia da più di un anno. L’arresto segue un ordine di cattura internazionale partito dalla magistratura spagnola, che accusa Lander di essere un membro di ETA. Dopo 48 ore che Lander passa in regime di isolamento a Regina Coeli, la corte italiana chiamata a giudicare sul caso gli accorda gli arresti domiciliari. A questo punto è chiaro che il reato per cui Lander è stato arrestato da quindici poliziotti in tenuta antisommossa alle otto del mattino, dopo un solo giorno dall’ordine di cattura internazionale, è il danneggiamento di un pullman vuoto nel 2002. In Spagna, infatti, ad un cittadino basco basta molto poco per essere accusato di terrorismo: una legislazione speciale accomuna i reati di violenza e danneggiamento al reato di terrorismo, seguendo il teorema giudiziario “Tutto è ETA”, con il quale dagli anni novanta la magistratura spagnola ha incarcerato, torturato e ucciso decine di baschi, e messo sistematicamente fuorilegge le loro organizzazioni politiche e culturali.
Lander non è il solo cittadino basco in Europa che negli ultimi mesi ha subito la repressione a distanza dello stato spagnolo: in Inghilterra, negli ultimi mesi, due baschi sono stati arrestati per reati commessi a distanza di decenni o non commessi affatto, come nel caso di Antton Troitino, rilasciato dopo 24 anni passati in prigione (la legge spagnola, al momento della sua condanna, prevedeva una detenzione massima di 30 anni) e a cui la magistratura vuole, in spregio a qualsiasi norma basilare del diritto, applicare retroattivamente la nuova norma che allunga il possibile periodo detentivo. Eneko Arronategui è stato invece arrestato a Cambridge nel luglio 2011, con l’accusa di aver preso parte al progetto di un attentato al re nel 1997, mai realizzato (!!). (continua…)

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41° anniversario della rivolta di Attica. Oggi come ieri, ABOLIAMO LE PRIGIONI!

Posted on - 27 settembre 2012 at 13:38

spacer Qualche giorno fa, il 9 settembre, cadeva il quarantunesimo anniversario di una delle piú grosse rivolte carcerarie nella storia degli Stati Uniti d’America: la ribellione di Attica. In un incredibile atto di coesione ed organizzazione, circa 1300 prigionieri (su un totale di di 2200), esasperati dalle inumani condizioni di vita a cui erano sottoposti, presero in ostaggio 40 guardie carcerarie controllando l’intera struttura per giorni. La ribellione di Attica ha segnato uno dei punti piú alti della coscienza nelle carceri statunitensi. I 1300 prigionieri, accampati nel cortile della struttura, organizzarono comitati interni, un campo medico dove anche le guardie prese in ostaggio venivano

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