La cultura degli algoritmi: intervista a Ted Striphas

Scritto da letizia | Pubblicato: novembre 28, 2012

spacer Ted Striphas, ricercatore e docente universitario, si occupa di storia, teoria e critica dei media, storia della tecnologia e cultural studies. Per le sue ricerche ha vinto diversi premi. È autore di “The Late Age of Print” e “An Infernal Culture Machine”.
Blog | @striphas

Come dici tu stesso, “An Infernal Culture Machine”, il tuo ultimo saggio, nasce dalla domanda “Cos’è la cultura oggi?”. Quali pensi che siano le principali spinte al cambiamento del tempo in cui viviamo?

I driver di cambiamento in ambito culturale, oggi, sono senz’altro numerosi, e lo sono sempre stati. Riguardo il modo in cui abbiamo accesso alla cultura e siamo in grado di comprenderla, comunque, le tecnologie digitali, o per meglio dire computazionali, sono quelle in grado di esercitare un’influenza maggiore.

Pensate a Google, per esempio. Chiunque utilizzi il suo servizio di ricerca sembra apprezzare soprattutto il modo in cui riesce a distinguere “la miglior cosa pensata e detta”, secondo la definizione di “cultura” espressa da Matthew Arnold nel 1869. Ma quand’è che comincia a esistere una connessione forte con l’informatica nelle definizioni del termine “cultura”? La maggior parte dei dizionari di inglese continua a definire “cultura” ancora con termini legati al XIX secolo, collegando il significato a idee come civiltà, estetica, visione del mondo, stile di vita e oggetti; alcuni dizionari includono anche il valore pre-moderno di naturale tensione alla crescita. Quello che cerco di riconciliare nella mia ricerca è il divario tra le definizioni standard di “cultura” e l’esperienza diretta che ne facciamo: quest’ultima sempre più influenzata dalla tecnologia. E questo è il punto in cui entrano in gioco gli algoritmi.

Uno degli argomenti principali che affronti nelle tue ricerche è la cosiddetta “Algorithmic Culture”. In che modo ritieni che gli algoritmi siano una chiave per capire il nostro nuovo modo di avere a che fare con la cultura?

La cultura è stata a lungo una questione di argomenti e negoziazione del significato: per argomenti intendo il modo in cui gruppi di persone discutono, in modo esplicito o implicito, riguardo le loro norme di pensiero, comportamento ed espressione; per negoziazione del significato il modo in cui, virtualmente, tutte le società hanno qualche tipo di meccanismo in atto – sempre politico – attraverso il quale decidono quali saranno gli argomenti che avranno maggiore influenza. Potreste pensare alla cultura come a una continua conversazione che la società conduce sul modo in cui i suoi membri agiscono.

Oggi le tecnologie informatiche lavorano per la negoziazione del significato, e gli algoritmi sono i mezzi principali per il raggiungimento del fine. Gli algoritmi sono essenzialmente dei sistemi decisionali: insiemi di procedure in grado di specificare il modo in cui qualcuno o qualcosa dovrebbe procedere date determinate circostanze. Il loro compito consiste nel considerare, o valutare, il significato di tutti gli argomenti o informazioni online (e offline, persino), e poi determinare quali tra questi argomenti siano i più importanti o degni di attenzione. Un altro modo di descrivere gli algoritmi è considerarli come aggregatori di conversazioni sulla cultura che, grazie a tecnologie come Internet, è diventata più diffusa e disaggregata.

Su siti come Google, Facebook, Amazon.com e altri, tutti i processi decisionali sono gestiti in modo matematico, naturalmente. Su Facebook, per esempio, gli amici hanno un peso particolare, o un valore, in base alla quantità di interazioni che si hanno con loro e viceversa, alla natura della relazione (parentela o amicizia casuale), e altro. Ciò di cui parlano – un determinato prodotto, per esempio, o un evento importante della loro vita – influisce altrettanto. Le news sono gestite con criteri di priorità su queste e altre basi, quantificate e calcolate.

Non parlo di questo per paura dei numeri, affatto. Ma è importante riconoscere il modo in cui questo tipo di elementi dietro le quinte influenzino il lavoro di un algoritmo, fin dai primi istanti, nel campo della cultura e delle decisioni politiche. Negoziare il peso della cultura – ossia stabilire delle norme – non è un processo neutro. Gli aggiornamenti di stato di mio cugino, a cui non sono particolarmente legato, compaiono sistematicamente tra le mie news su Facebook, presumibilmente per via della nostra parentela. Osservate il valore implicito, in questa scelta: la parentela è più importante di altri tipi di relazione. Perché dovrebbe essere così?

I miei dubbi sugli algoritmi, come quello alla base di Facebook, hanno poco a che fare con la possibilità che si sbaglino e molto di più con la mancanza di consapevolezza sul come esattamente funzionino. Spesso sono protetti da brevetti, segreti industriali e altri vincoli tecnici o legali, che rendono difficile, se non impossibile, capire quali valori e pesi siano addestrati a interpretare, e perché. La cultura degli algoritmi opacizza la parte di negoziazione del significato della cultura.

In “The Late Age of Print” parli di come l’editoria si sia adattata ai cambiamenti culturali del ventesimo secolo. Potresti elencare tre aspetti a cui gli editori dovrebbero prestare attenzione per evolvere nell’era digitale?

A un editore con la volontà di evolvere rapidamente consiglierei questo:

- spostare la produzione cartacea e la back-list sul print-on-demand, e stringere accordi con Amazon per vendere la versione digitale;
- suddividere i libri in piccole parti e vendere quelle, magari insieme alla versione completa o a una estesa, di carta o digitale;
- vendere le versioni digitali a prezzi bassi, dal momento che da circa vent’anni i consumatori hanno scoperto che i bit costano meno degli atomi.

Ovviamente si tratta di un approccio grezzo, molto di base, che guarda al valore dei libri quasi esclusivamente in termini economici. Per parlare davvero di evoluzione nell’editoria si dovrebbe considerare un contesto più ampio, quello dei libri e della lettura all’interno della società. Non voglio aggiungere altro, ma consiglierei a chi ci legge di dare un’occhiata alla prefazione di “The Late Age of Print”, in cui ho sviluppato in modo diffuso queste idee. Cosa significa, per esempio, che Amazon e altre librerie online siano in grado di osservare il comportamento del consumatore, o cancellare alcuni titoli dalle loro biblioteche digitali senza il loro consenso? Ci sono implicazioni etiche significative che vengono messe da parte troppo facilmente nell’industria del libro che corre verso l’era digitale.

Leggi l’intervista in inglese: Algorithms Are Decision Systems

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