Perchè gli olandesi ci battono nella sartoria maschile?

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Il Wall Street Journal sembra non avere dubbi. Un abito da uomo Armani ha la stessa qualità sartoriale di un abito Suitsupply. C’è però una non piccola differenza. L’abito Armani costa 3600 $ mentre quello Suitsupply 614$. Possibile? Secondo i due giudici (due esperti del settore Salvatore Giardina e Salvatore Cesarani) che hanno analizzato, attraverso un test alla cieca, gli abiti da uomo offerti dai principali brand presenti sul mercato americano, la cura dei dettagli, il tessuto, il taglio e la costruzione dell’abito sono sostanzialmente simili.  Per carità si può sempre dire che il test è incompleto, il giudizio falsato (basato su sensazioni) e la metodologia non scientifica ma si tratta comunque di un fatto che fa riflettere. Non tanto perché mette in pericolo il valore percepito del brand Armani, quanto perché mette in discussione la capacità delle imprese italiane di innovare in un settore, quello dell’eleganza maschile, che ci vede leader a livello internazionale.

Suitsupply è un brand olandese, fondato da Fokke de Jong, che si sta rapidamente espandendo a livello internazionale (35 negozi in Olanda e Benelux, 3 a Londra, con recenti apertura a New  York e a Milano). La proposta è molto aggressiva: introdurre l’abito da uomo, con qualità sartoriale, ad un pubblico più giovane ed ad un prezzo accessibile. Le linee sono principalmente due: una ready to wear (prodotto industrialmente) alla quale si possono apportare solo piccole modifiche (apertura dei bottoni della giacca, piccoli ritocchi qua e la) ed una linea made-to-measure (quasi-sartoriale) nella quale si possono prendere fino a 30 punti ( bisogna aspettare 3-5 settimane per la consegna ed il prezzo può salire fino a 600-900 euro). I tessuti sono Italiani (provengono da due delle migliori aziende di Biella), il taglio innovativo in linea con le nuove richieste del consumo (slim-fit, spalla napoletana, giacca più corta). La qualità costruttiva non è sacrificata, almeno nella linea più alta del ready-to-wear e nel made-to-measure che è realizzata in Italia, Portogallo e Cina. Il punto vendita gioca un ruolo di primo piano nel modello di suitsupply. Rappresenta un luogo di incontro con i consumatori. Nel punto vendita ci sono sarti che realizzano, a vista, piccole personalizzazioni (in un’ora accorciano i pantaloni e si può quindi aspettare continuando gli acquisti) e si occupano di prendere le misure per realizzare l’abito quasi sartoriale e le inseriscono nel software aziendale che gestisce l’ordine.

Ma come è possibile avere un prezzo così basso? Facendo economie di scala negli ordinativi, gestendo attraverso le nuove tecnologie il processo di produzione, risparmiando sul marketing e sul brand, controllando direttamente la distribuzione e scegliendo location meno costose per il punto vendita (a NY ad esempio il negozio è al secondo piano senza la visibilità della vetrina).

Questo modello è oggi particolarmente apprezzato da una crescente quota di consumatori. Il Wall Street Journal segnala la grande vitalità dell’abito maschile nel mercato americano (+20%) proprio in una fascia prezzo più bassa che però non vuole rinunciare completamente alla qualità.

I tessuti sono italiani, la tecnica costruttiva è italiana, lo stile è italiano. Perchè allora nessuna impresa italiana ci ha pensato?

Molti si lamentano in Italia della mancanza di talenti creativi al pari dei nomi storici della moda del recente passato. E’ vero, forse. Dal mio punto di vista, è molto più preoccupante la difficoltà nell’esplorare nuovi modelli imprenditoriali.

Marco

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Scritto da marco | January 25, 2012 | in Creatività e design, Innovazione | 5 Commenti |

Per rappresentare i maker serve un’altra idea di imprenditorialità

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Un lungo articolo di Mike Press, professore di Design Policy all’università di Dundee, lancia un tema che potrebbe essere a breve di consistente attualità: chi rappresenterà sulla scena politica i maker, gli artigiani di nuova generazione che stanno rapidamente conquistando peso economico e visibilità sui media anglosassoni?

Nel post, Press ripercorre le tappe della rapida escalation mediatica che ha portato a più riprese il movimento dei maker su testate accreditate come l’Economist e Fast Company: da fenomeno di costume, il fenomeno dei maker assume i contorni di un’avanguardia che preannuncia profondi cambiamenti nel mondo della produzione industriale. Non è chiaro chi potrebbe rappresentare in politica questi nuovi soggetti: questo perché i maker sono interlocutori abbastanza difficili da interpretare. Sono certamente imprenditori, ma di un tipo nuovo. Come ha scritto William Deresiewicz sul NYT queste figure sono il nuovo enzima del cambiamento sociale; sostituiscono l’artista e il riformatore, lo scienziato e il santo. Sono il motore del cambiamento, i promotori di nuova idea di autonomia e di immaginazione. Non vogliono necessariamente diventare super ricchi; vogliono di sicuro una società migliore.

Per un certo periodo di tempo la politica ha provato a fare i conti con questi nuovi imprenditori attraverso la categoria della creatività. Sulla scia delle indicazioni di Richard Florida abbiamo immaginato una classe di creativi che avrebbe fatto da motore a una nuova idea di innovazione, meno ancorata alla tecnologia e più attenta alla dimensione del gusto e del design. In realtà, l’idea di una “classe” di creativi non riesce a catturare davvero il fenomeno dei maker e dei nuovi appassionati di fai da te, terribilmente ancorati al mondo materiale e non necessariamente affezionati alle grandi aree metropolitane. Il fenomeno, insomma, richiede categorie nuove rispetto a quanto utilizzato dall’accademia e dalla politica.

Vale la pena segnalare soprattutto l’imbarazzo del Labour party di fronte a questa nuova ondata di imprenditorialità fattiva. La sinistra sposa la causa del lavoro, ma ha difficoltà a capire e ad abbracciare questa idea di “fare” perché troppo imprenditoriale. Il che, secondo Press, è singolare proprio perché molti di questi nuovi imprenditori non sono lontani da priorità e ideali tipici di un’area progressista.

Che sia l’idea stessa di imprenditorialità a dover essere rivista?

s.

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Scritto da Stefano | January 21, 2012 | in Creatività e design, Innovazione | 1 Commento |

La crisi e gli errori dell’Occidente

Abbiamo oramai capito che l’attuale crisi economica e finanziaria viene in realtà da lontano ed è destinata a segnare in profondità gli equilibri globali che si sono affermati nel corso del ‘900. Per quanti, come noi, vivono in quella parte fortunata di mondo chiamata “Occidente”, diventa dunque necessario prendere consapevolezza dei mutamenti in atto, riflettere sugli errori compiuti e prepararsi a cambiare passo. Un utile lettura in questa direzione è fornita da Dambisa Moyo, brillante economista di origine africana, con studi universitari ad Oxford e Harvard, di cui Rizzoli ha da poco tradotto l’ultimo libro: La Follia dell’Occidente. Come cinquant’anni di decisioni sbagliate hanno distrutto la nostra economia. Fra i numerosi spunti che il libro offre vale qui riprenderne almeno tre. Il primo riguarda le distorsioni di un’economia basata sul debito. Secondo l’Autrice la crescita a debito non ha riguardato solo gli Stati, ma anche le famiglie e le imprese delle economie avanzate, portando ad una illusione di ricchezza che è stata esasperata da una industria finanziaria fuori controllo, che ora rischiamo di pagare a carissimo prezzo. Il debito pubblico sarebbe in particolare il risultato di politiche sbagliate sul fronte della previdenza (le passività pensionistiche stanno esplodendo in tutto l’Occidente a causa dell’invecchiamento della popolazione), della fiscalità (che non riesce a tassare in modo equo i soggetti più ricchi, che sono anche i più sfuggenti) e delle infrastrutture energetiche e di trasporto (che nei paesi industriali sono sempre più obsolete e la loro modernizzazione è spesso ostacolata da processi decisionali lunghi e costosi). Il debito privato è stato invece alimentato soprattutto dagli investimenti immobiliari, il cui eccesso non solo ha scatenato la crisi finanziaria attraverso i famigerati mutui sub-prime, ma che alla fine ha distolto il risparmio da investimenti più produttivi nel lungo periodo, come quelli sul capitale umano e tecnologico.

Un secondo fattore preso in considerazione è la progressiva perdita nelle economie avanzate di lavoro e conoscenze produttive nell’industria. Non che i servizi siano irrilevanti, ma quando occupazione e investimenti nella manifattura scendono sotto una certa soglia, come sta avvenendo nei “vecchi” Paesi industriali anche a seguito delle delocalizzazioni, nell’economia viene a mancare una base fondamentale di apprendimento tecnico senza la quale l’innovazione perde slancio. In tale prospettiva, la critica della Moyo colpisce anche un altro dei pilastri dello sviluppo dell’Occidente, quello del libero commercio basato sulla teoria dei vantaggi comparati. Questa teoria può funzionare a condizione che tutti rispettino le stesse regole, altrimenti si innesca una concorrenza a-simmetrica che avvantaggia solo una parte, fino a creare posizioni di monopolio che deformano i rapporti di scambio.

Il terzo e decisivo aspetto che Dambisa Moyo considera è dunque il ruolo dello Stato nell’economia di mercato. Il giudizio è qui ambivalente. Se, da un lato, l’aumento del debito pubblico sul Pil segnala un maggiore peso della politica, dall’altro il suo effettivo potere viene oggi minacciato sia dai grandi gruppi multinazionali, sia dalla frammentazione della società in interessi sempre più difficili da conciliare. In questa apparente contraddizione risiede forse il messaggio più importante di questo libro: ciò che le democrazie occidentali stanno perdendo è proprio quel senso di coesione collettiva che rende possibile affrontare le sfide comuni che il progresso pone continuamente di fronte alle società, come i cambiamenti demografici, gli investimenti in conoscenza, l’efficienza energetica, la tutela dell’ambiente, l’equità sociale. Queste sfide richiedono uno Stato più autorevole e moderno, ma proprio per questo anche più essenziale. Uno Stato che sappia regolare più che gestire, attivare le energie sociali e imprenditoriali più che sostituirsi ad esse. Uno Stato che nel rappresentare gli interessi di una comunità nazionale sappia riconoscere e valorizzare le crescenti interdipendenze globali. E’ anche nel ripensare il ruolo e le forme dello Stato che le economie dell’Occidente potranno ritrovare la via dello sviluppo.

Giancarlo

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Scritto da corog | January 5, 2012 | in Varie | 2 Commenti |

Le industrie creative e le economie di scala

La scorsa settimana al Dipartimento di Scienze economiche di Padova si è tenuto un seminario incentrato sulle industrie creative (in un buona approssimazione le industrie che producono contenuti creativi: editoria, software, design, media, musica, ecc.) al quale hanno partecipato i principali esperti a livello europeo (qui trovate il programma). E’ stata un’occasione per fare il punto su uno dei temi (la creatività) al centro di un dibattito particolarmente intenso, soprattutto in Europa dove le industrie creative sono considerate il punto di riferimento per favorire lo sviluppo economico nella società post-industrializzata (si vedano a questo proposito il rapporto Figel e il libro bianco sulla creatività in Italia).

Uno dei punti più rilevanti emersi durante il seminario riguarda la necessità di cambiare prospettiva in merito alle industrie creative. Finora è stato privilegiato, sulla scia degli studi di Richard Florida, un approccio principalmente settoriale (lo studio delle singole industrie creative) e basato sulla presenza di specifici profili professionali (la classe creativa) quali proxy del potenziale creativo di un territorio/spazio urbano. Molte ricerche hanno messo in evidenza la problematicità di questa impostazione. Tra questi merita di essere citato lo studio elaborato da Brian Hracs, ricercatore dell’università di Uppsala, sui musicisti attivi a Toronto, una delle città canadesi con la scena musicale più sofisticata. Secondo Hracs l’elevata concentrazione di musicisti all’interno della stessa area metropolitana ha portato a dei risultati non sempre positivi. La possibilità di valorizzare la “propria arte” è molto difficile. Il mercato locale è estremamente affollato, farsi pagare, ad esempio, per una performance live è un’impresa (molti musicisti sono “costretti” a suonare gratis). Non stupisce quindi che il livello dei redditi dei musicisti a Toronto sia in media di circa 9000 euro anno e non stupisce nemmeno la fuga degli stessi musicisti dal downtown di Toronto verso aree più periferiche e più a buon mercato.

Non è andando in questa direzione che le industrie creative possono diventare quel volano per lo sviluppo di cui molto si parla. La vera sfida consiste nel confrontarsi con le economie di scala che consentono di moltiplicare il valore della creatività incorporando lo sforzo creativo in prodotti replicabili. Nel mondo dei videogiochi questo fenomeno è già evidente. La creatività diventa parte di un processo economico/industriale che si svolge all’interno di filiere globali. Il contenuto di un videogioco di successo può essere valorizzato ben oltre i confini dell’industria e può diventare ad esempio un film, un cartone animato, una linea di giocattoli, trasformarsi in un parco a tema e così via come nel caso noto dei Pokemon giapponesi. Nel mondo della moda è altrettanto evidente: lo “stile” del designer e il brand diventano il centro di un processo di replicazione che si estende agli accessori, ai profumi fino ad arrivare agli hotel e agli appartamenti come nel caso di Armani.

Alcuni dati forse possono aiutare a capire la rilevanza di questo moltiplicatore: il film Guerre Stellari ha generato circa 5 miliardi di dollari attraverso le vendite del film e 15 attraverso forme di valorizzazione parallele (giocattoli, videogiochi, ecc.). Nel caso della scrittura pittura o della musica classica questo percorso sembra più difficile e problematico, ma non per questo meno urgente. Naturalmente questo non significa ignorare l’importanza in termini culturali e artistici delle industrie creative quanto di segnalarne il potenziale inespresso in termini di sviluppo economico.

La quantità di creativi in un determinato luogo non è tutto; diventa decisiva la capacità di valorizzare e moltiplicare il valore dei contenuti creativi all’interno di filiere globali.

Marco

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Scritto da marco | December 13, 2011 | in