spacer spacer spacer spacer spacer
Ricerca

ricerca avanzata

  • Home
    • Catalogo
    • Autori
    • Collane
    • Riviste
    • Novità
    • In uscita
    • Contatti
    • Diritti
    • Agenda
    • Newsletter
  • Carrello

  • spacer
spacer
Julius von Schlosser
Storia del ritratto in cera
A cura di Pietro Conte
Con un saggio introduttivo di Georges Didi-Huberman
 

Materiale viscoso e malleabile per eccellenza, la cera si è sempre rivelata particolarmente adatta all’arte del ritratto, consentendo di restituire i dettagli più delicati e persino il colorito naturale del modello. Ma sono proprio queste sue qualità a costituirne al contempo il lato oscuro, dando corpo all’incubo e all’ossessione di una perfetta metamorfosi. La statua di cera non allude alla realtà, bensì la replica. E lo fa così bene che il problema – come aveva già visto Freud – non è soltanto lo scambio tra immagine e realtà, ma anche e soprattutto la possibile animazione dell’immagine stessa. Si insinua il dubbio che un oggetto privo di vita sia invece animato, e che l’immagine non sia soltanto immagine, cosa, mero oggetto, ma che con essa in qualche modo ne vada della vita stessa del modello, dell’originale, della realtà. Per questo suo carattere di inquietante supplenza, la storiografia ufficiale dell’arte ha sempre guardato con sospetto alla figura di cera, tenendola accuratamente a debita distanza. Fa coraggiosa eccezione la Storia del ritratto in cera di Julius von Schlosser, che ai primi del Novecento, raccogliendo uno spunto di Aby Warburg, costringe la storia dell’arte a occuparsi di questa perturbante classe di oggetti e a orientarsi in direzione di una ben più ampia e problematica storia dell’immagine. Una storia che continua ad appassionare il nostro presente, come dimostrano le pratiche ceroplastiche di artisti contemporanei quali Bruce Nauman e Maurizio Cattelan.

 

Recensioni spacer
Nauman e Cattelan: l'arte che piace oggi nata dalla cera
Piero Melati «La Repubblica- Il venerd» 22-07-2011
Gli orizzonti di Schlosser aperti sul mondo delle cere
Isabella Mattazzi «Il manifesto» 27-08-2011
Somiglianza per eccesso
Givanni Cerro «L'Osservatore Romano» 30-08-2011
Il fascino discreto dell'imitazione che supera la realt
Roberta Lombardi «Il Riformista» 21-08-2011
 
Nauman e Cattelan: l'arte che piace oggi nata dalla cera
Piero Melati «La Repubblica- Il venerd» 22-07-2011
Il 21 ottobre del 1925, venti sculture di Constantin Brancusi sbarcarono nel porto di New York. Per le leggi doganali, l'arte poteva circolare liberamente. Ma i prodotti manufattuneri no. Dovevano essere tassati. E quell'ottone lucidato appena sbarcato che cos'era?
Quei «così» vennero tassati del 40 per cento rispetto al valore dichiarato. Ma quando un collezionista, Edward Steichen, ne acquistò uno alla Brummer Gallery, si rifiutò dì pagare la tassa. Il contenzioso finì in tribunale. Due anni dopo il giudice sentenziò: l'oggetto acquistato, L'uccello nello spazio, era scultura, non manfaftura.
Quel giorno il mondo dell'arte cambiò pelle. Undici anni prima, a scuotere l'accademia, c'era stato L'orinatoio di Duchamp. E lo stesso anno, 1928, nacque a Pittsburgh Andrew Warhola jr., detto Andy Warhol, che avrebbe assestato un'altra botta con la sua Pop Art. Ma questi strappi al vecchio “naturalismo” ebbero un'origine? Forse. Nella cera.
La casa editrice Quodlibet rispolvera il trattato più sottovalutato di un esperto prestigioso: Storia del ritratto in cera di Julius von Schlosser. Si tratta di una biografia parallela alla storia dell'arte “canonica e lineare”, inaugurata nel Cinquecento da Vasari. Von Schlosser è stato uno dei grandi rappresentanti della Scuola di Vienna. Fu allievo dì Franz Wickhoff, maestro di Ernst Gombrich, Hans Sedlmayr, Fritz SaxI, Ernst Kris, Otto Kurz, amico e seguace di Benedetto Croce. Gli esegeti di questo grande erudito «inattuale» (il suo secolo sarebbe stato il Settecento, disse Gombrich), sostengono che egli abbia tracciato una linea medita dell'evoluzione artistica, preannunciando i nostri contemporanei Bruce Nauman e Mario Cattelan (artisti che non a caso hanno prodotto opere in cera). La sua tesi è che l'arte contemporanea derivi dall'antica sapienza della lavorazione di “materiali viscosi e malleabilii”.
Maschere funerarie, ex voto, manichini: oggetti di cera, declassati, rimossi dai musei. Un errore, per Von Schlosser. Perché la cera rappresenta da sempre la materia non per imitare la realtà o riprodurla, ma per introdurre un doppio inquietante, altamente verosimile, che vive quasi di vita propria. Un'immagine antica, una provocazione simbolica, che (annuncia Von Schlosser già nei Trenta) presto scompaginerà l’arte.
spacer
Gli orizzonti di Schlosser aperti sul mondo delle cere
Isabella Mattazzi «Il manifesto» 27-08-2011
Un saggio del grande critico scritto nel 1911 e tradotto da Quodlibet Ai manichini di re e di uomini illustri si aggiungono i grandi ladri, gli assassini, le creature mostruose, mentre lentamente si biforca la strada fra arte e artigianato La questione sembrerebbe fermarsi alla storia di un materiale plastico, ma si estende invece alla necessità o meno di distinguere tra ciò che è arte e ciò che non lo è.
Sarà capitato a tutti di ricordare, fra gli episodi più tremendi della propria infanzia, una gita scolastica in qualche museo delle cere. Luoghi di vellutini e stucchi dorati, i vari gabinetti di Mme Tussaud europei sono da anni meta di scolaresche stanche e gruppi di cinquantenni in vacanza aziendale. A Parigi, il rituale pagano del turismo kitsch segue sempre, nell'ordine: Tour Eiffel, quadri in stile impressionista comprati a Montmartre, la tomba di Baudelaire a Montparnasse su cui sostare in rispettoso silenzio e, naturalmente, il Museo delle cere Alfred Grévin. Pagare il biglietto per guardare Marat morto nella sua vasca da bagno sembrerebbe configurare una delle situazioni più imbarazzanti in cui ci si possa trovare superata l'adolescenza, ma non sempre è stato così. La ceroplastica, l'uso di modellare statue in cera, ornandole con stoffe e capelli veri, ha in realtà una storia lunghissima e natali aristocratici. Ce lo ricorda oggi la traduzione italiana per Quodlibet di un testo singolare, Storia del ritratto in cera, scritto nel 1911 da Julius von Schlosser (traduzione e cura di Pietro Conte con un saggio introduttivo di Georges Didi-Huberman, pp. 212, euro 24).
Direttore delle Collezioni di Scultura e Arti applicate del Kunsthistorisches Museum di Vienna, contemporaneo di Warburg e maestro, tra gli altri, di Ernst Gombrich, Hans Sedlmayr e Fritz Saxl, Schlosser è stato uno dei rappresentanti più lucidi e autorevoli della Scuola di Vienna. I suoi testi sono ancora oggi uno strumento indispensabile per la conoscenza delle fonti della storia dell'arte moderna. Tra questi, la Storia del ritratto in cera, potrebbe sembrare a prima vista un'opera minore. La scelta di trattare un tema poco frequentato e di dedicare una parte della propria ricerca a qualcosa che non si può neppure chiamare «genere» (Schlosser stesso definisce la ceroplastica un «preparato metodologico») potrebbe essere facilmente classificata come divertissement erudito piuttosto che come operazione critica nel senso più alto del termine.
In realtà, questo saggio rappresenta ben più della semplice storia di un materiale plastico, e di questioni sul tavolo sembra porne parecchie. Prima tra tutte, la necessità o meno di una distinzione tra arte e non arte, e conseguentemente, come sottolinea Pietro Conte nella sua postfazione, il problema della «fattibilità di una storia dell'arte, cioè di una restituzione linguistica di un percorso, o se si preferisce di uno sviluppo, che linguistico non è». La ceroplastica è una forma artistica? I volti immoti dei re che ci fissano dalle teche della Nationalbibliothek di Vienna sono arte? Sono giudicabili (classificabili) secondo parametri estetici? Schlosser ribalta il problema utilizzando la cera, materiale metamorfico per eccellenza, come emblema privilegiato per un vero e proprio mutamento di orizzonte critico. All'interno del testo, non è tanto la validità estetica del manufatto in sé a interessargli, quanto piuttosto l'efficacia antropologica dell'immagine che questo manufatto racchiude, impressa sul suo corpo molle. La storia che Schlosser costruisce intorno a questi busti ingialliti dal tempo è infatti una storia antropologica ancor prima che estetica. Una storia fatta di echi, di immagini che ritornano a distanza di secoli, intatte, sempre uguali, perché intatto e sempre uguale è il rapporto dell'uomo con la morte e con il divino. Nate come calchi funebri, le maschere di cera, «più vere del vero», rappresentano il grado zero della percezione psicologica del ritratto come commistione tra immagine e vita. Non a caso pratiche come bruciare in effigie, o come l'envoultement (equivalente esoterico europeo del Voodoo) sono sopravvissute fino alle soglie della nostra modernità sottolineando, con brutale evidenza, l'idea di uno strettissimo vincolo iconico tra corpo e immagine. Il calco funebre equivale in maniera neppure tanto mediata al volto che stava sotto di esso. Corpo di carne e corpo di cera sono il recto e il verso di un'unica condizione fusionale e magica. Io sono la mia cera, o meglio, la mia cera non è solo impronta, diretta emanazione, ma è il mio volto stesso.
Da qui, nelle cerimonie funebri romane, l'uso di nascondere al pubblico il cadavere in disfacimento sostituendolo con un fantoccio in cera in atteggiamento dormiente. Da qui, la prassi di far seguire il feretro da busti (o manichini) in cera raffiguranti gli antenati eccellenti del morto e l'abitudine di esporre questi stessi busti nell'atrio delle abitazioni patrizie a proteggere gli abitanti della casa e a ricordarne, al visitatore, i natali illustri. Da qui, nella Francia e nell'Inghilterra medioevali, la consuetudine di sostituire il cadavere dei re con una statua in cera per l'estremo omaggio dei sudditi, o l'uso votivo nelle chiese italiane rinascimentali di offrire in cera l'esatto peso (e l'esatta forma del proprio corpo) per ricavarne in cambio guarigione e salvezza.
Come si può facilmente vedere, la Storia del ritratto in cera, è la storia della ripetizione di un gesto sempre uguale, o meglio del continuo ritorno (Schlosser utilizza il termine survival, mutuandolo da Tylor) di uno stesso elemento. Un concetto non molto dissimile dal Nachleben warburghiano (e dalla survivance di Didi-Huberman, che non a caso firma un ampio saggio introduttivo a questa edizione italiana del testo). Il ritratto in cera sopravvive, ritorna tra le pieghe del tempo, seguendo un percorso accidentato, non lineare, riemergendo dopo secoli di ombre, anche mutando di segno. In epoca post-rivoluzionaria, con la progressiva polverizzazione di ogni tipo di committenza aristocratica, la ceroplastica ne segue il destino, sporcando la nobiltà del proprio tratto nelle fiere di provincia e nei gabinetti anatomici. Ai manichini di re e di uomini illustri si aggiungono i grandi ladri, gli assassini, le creature anatomicamente mostruose, mentre lentamente si biforca la strada tra arte e artigianato, tra ciò che può e ciò che non può rientrare a pieno titolo in quella nuova enciclopedia del gusto di matrice classicista che della «eccessiva naturalità», degli occhi di vetro e dei capelli posticci dei busti in cera non saprà proprio che farsene.
Ma sebbene declassata (o meglio, forse proprio in ragione del suo declassamento), ridotta a materiale di ripiego per gite scolastiche in giorni di pioggia, la cera rivela ancora adesso la sua potenza di traccia sopravvivente, prodotto di una temporalità sintetica e non fattuale, non orientata. Elementi di confine, perturbanti nel loro eccesso di somiglianza con la vita, ancora oggi i sorrisi immobili di Madonna o Michael Jackson del Musée Grévin conservano nel proprio involucro la traccia mnestica delle prime maschere funebri. Sono il ricordo del manichino di Cesare, esposto con tutte le ferite impresse e bene aperte di fronte al popolo romano. Sono la memoria di innumerevoli re, vescovi, santi anneriti dal fumo delle torce e consumati dalla devozione dei fedeli. Veri e propri convitati di cera al banchetto senza fine dell'uomo con la propria storia.
spacer
Somiglianza per eccesso
Givanni Cerro «L'Osservatore Romano» 30-08-2011
Viene finalmente tradotto in italiano il saggio di Julius von Schlosser, Storia del ritratto in cera a cura di Pietro Conte (Macerata, Quodlibet, 2011, pagine 232, euro 24), pubblicato per la prima volta nel 1911. Lo storico dell’arte della Scuola di Vienna ripercorre, isolando alcuni momenti fondamentali, l’affascinante e sfortunata parabola della ceroplastica: a Schlosser, infatti, nei primi anni del Novecento, la scultura in cera sembrava, da un lato, poter vantare un «passato glorioso», dall’altro, sopravvivere solamente nelle fiere e nelle botteghe di sarti e barbieri.
La lunga panoramica prende le mosse dal mondo antico: l’autore si concentra sul ruolo svolto dalla cera nella rappresentazione degli antenati e nei contesti funerari. Si va dalla descrizione delle maschere rinvenute nella necropoli di Cuma a quella dell’effigie di Cesare, che, secondo lo storico greco Appiano, fu mostrata durante i funerali del dittatore al posto del cadavere, disteso nel cataletto. La statua, attraverso un complesso meccanismo, poteva ruotare su se stessa: il popolo romano che assisteva alle esequie rimase talmente colpito dalla sua verosimiglianza — erano stati addirittura riprodotti i segni delle ferite causate dalle ventitré coltellate inferte dai congiurati — da commuoversi e decidere di appiccare il fuoco al luogo dell’assassinio.
Il ricorso all’effigie accompagna anche il funerale di Augusto e i riti post mortem in onore dell’imp eratore Pertinace organizzati da Settimio Severo, per poi fare la sua comparsa in occasione dell’ap oteosi di quest’ultimo. Seppur in forme diverse, torna nelle cerimonie funebri dei re francesi e inglesi tra Quattrocento e Cinquecento. La reazione dei romani di fronte al manichino ruotante di Cesare ricorda, nonostante le ovvie differenze, il dolore provato da Cristina di Lorena dinanzi al busto a grandezza naturale del figlio, Cosimo II de’ Medici, opera dello scultore carrarese Pietro Tacca. Stando al racconto tramandatoci da Filippo Baldinucci, Cristina, ancora affranta per la dipartita del granduca di Toscana, avvenuta nel 1621, non poté sostenere la vista della statua, che era persino arricchita da barba, ciglia e capelli veri, nonché occhi di cristallo.
La «somiglianza per eccesso» cui la cera si presta ha, dunque, spesso provocato un senso di disagio e di disorientamento, tanto tra i semplici spettatori quanto tra gli storici e i critici d’arte. Come giustamente nota Georges Didi-Huberman, in un suggestivo saggio che apre il volume di Schlosser, il naturalismo e il realismo eccessivi, uniti alla facilità d’alterazione cui vanno incontro le opere in cera, hanno senza dubbio contribuito a determinare l’e m a rg i n a - zione dal campo artistico di un materiale «esteticamente e psicologicamente viscoso», col tempo relegato tra le tecniche artigianali.
Per l’età medievale, Schlosser si sofferma sulla pratica delle offerte votive, in particolare sull’esempio della Santissima Annunziata di Firenze — già studiata da Aby Warburg — all’interno della quale era raccolta un’enorme quantità di «boti», vale a dire ex voto realizzati dai ceraioli della città. Ben presto il loro numero crebbe a dismisura, tanto da rappresentare un pericolo per l’incolumità dei fedeli: le offerte, infatti, avevano ormai invaso interamente la chiesa trovando posto addirittura tra le travi del soffitto. Poiché tra il XVII e il XVIII secolo la ricchissima collezione andò perduta, Schlosser propone ai lettori diverse alternative per farsi un’idea di come potesse apparire questo straordinario «museo di storia del ritratto»: il santuario di Santa Maria delle Grazie, nei pressi di Mantova, in cui erano accolte statue in cera e cartapesta, e quello bavarese di Vierzehnheiligen, che ospitava alcune riproduzioni a grandezza naturale.
In epoca moderna, mentre prosegue l’uso della ceroplastica in ambito religioso e di corte, oltre che funerario, come è il caso della raffigurazione di bambini morti prematuramente, si registrano un’evidente «democratizzazione» del fenomeno e alcuni sviluppi inediti: sorgono i primi gabinetti di cere, tra cui quelli aperti da Antoine Benoist e Josef Müller, e vengono realizzati modelli anatomici per le scuole di medicina.
Ormai, però, stavano per intervenire mutamenti decisivi: secondo l’autore, con l’affermarsi della riflessione estetica tedesca nella prima metà dell’O ttocento, venne dato finalmente corso alla condanna a morte da tempo emessa contro la ceroplastica. Già dal secolo precedente, si era assistito a un progressivo declassamento delle opere in cera, motivato soprattutto da una negazione radicale del loro valore artistico. Tuttavia, come sostiene Didi-Huberman proseguendo il discorso di Schlosser, di lì a poco si sarebbe verificata una reazione contro quel contesto triviale e d’intrattenimento, nei cui angusti confini era stata costretta la scultura in cera. Grazie alla versatilità di artisti quali Edgar Degas e Medardo Rosso, questo materiale per natura sfuggente sarebbe riuscito a sopravvivere alla sua stessa messa al bando e a presentarsi, così, rinnovato, nelle forme e negli intenti, alla prova dell’arte contemporanea.
spacer
Il fascino discreto dell'imitazione che supera la realt
Roberta Lombardi «Il Riformista» 21-08-2011

Può sembrare una scelta un po' maliziosa quella di mettere in copertina un autoritratto di Cattelan in cera (Senza titolo, 2001) per la ristampa, a 100 anni dalla sua prima uscita, di Storia del ritratto in cera di Julius von SchIosser (Quodlibet, pp. 224). In questo piccolo saggio del 1911 non troveremo evidentemente riferimento a Cattelan o a qualunque altro artista contemporaneo, eppure sul tema ci sarebbe molto da dire. Proveremo a fare qualche esempio. Von Schlosser, nel trattare un argomento circoscritto, ci apre domande molto attuali. L'autore fu esponente della cosiddetta «scuola di Vienna», maestro tra gli altri di Ernst Gombrich e amico e seguace di Benedetto Croce. Ciò che interessa il critico non è tanto quello di colmare un vuoto della "storia dell'arte", il cui compito da sempre è decidere cosa sia arte e cosa no, quanto quello di studiare dei fenomeni culturali, e in particolare, i corsi e ricorsi della storia. Come fa notare Didi-Huberman, nel saggio del 1998 che apre Storia del ritratto in cera, von SchIosser mutua un'espressione dell'etnologo Tylor, riconoscendo nel ritratto in cera un esempio dei "survival", cioè «il "sospeso" (superstitio) di vecchie consuetudini nel cuore di uno stato di cose nuovo e modificato». Un concetto non dissimile alle "sopravvivenze" di Aby Warburg, contemporaneo di von Schlosser. L'autore si sofferma in particolare su 4 principali funzioni della ceroplastica: funeraria, votiva, artistica e "anti-estetica". Quest'ultima segna l'estromissione della ceroplastica dal novero delle arti, dopo la caduta dell'Ancien Régime, quando la storia dell'arte prese la strada dell'idealismo, teorizzando la supremazia dell'idea sulla tecnica, e quindi delle "belle arti" in opposizione all'artigianato.

 

Von Schlosser rintraccia la fortuna - e sfortuna - della ceroplastica proprio nella sua caratteristica di «realismo eccessivo», nella sua capacità di rassomigliare troppo al vero. E quello che Freud, un altro contemporaneo di Schlosser, definirà «perturbante». Proprio per queste qualità, alla cera fu dato il compito di rendere eternamente vivi i morti, fissandoli in realistiche riproduzioni, con tanto di capelli ed abiti veri. O di sacrificarsi a posto dei vivi attraverso la pratica degli ex-voto, usati come ringraziamento alla divinità dopo una guarigione. Le opere di cera arriveranno ad assumere un valore autonomo per le loro qualità estetiche, e a venir mostrate ad un pubblico.

Ma com'è noto, dal Rinascimento in poi l'artista cerca di slegarsi dal ruolo di subordine a cui la storia lo aveva relegato. Inizia il lungo processo che ha portato all'ipertrofia della figura dell'artista che caratterizza i nostri giorni. Secondo von Schlosser, però, fino a quella cesura definitiva che identifica con la Rivoluzione francese e con l'estetica tedesca della prima metà dell'Ottocento, l'essenza dell'arte consisteva ancora «senza tanti patemi d'animo, nell'imitazione» e la ceroplastica poteva continuare a proliferare. Con la teoria classicista la situazione si capovolge, è l'arte ora a dominare la natura. L'analisi di von Schlosser arriva quasi a toni drammatici: «Si fecero strada il funesto dualismo di forma e contenuto (...); riapparve per l'ennesima volta l'antico falso problema platonico del dualismo spirito-materia, sostanza-accidente». Von Schlosser ricorda che nel frattempo prende piede anche un'altra teoria, quella romantica del "genio". Insomma le teorie dell'arte cominciano ad assumere toni sempre più contraddittori. In tutto questo il concetto di somiglianza viene considerata una tecnica accessibile a chiunque e per questo «relegata nell'anticamera dell'arte.» Con buona pace della ceroplastica che comincia una nuova fortuna negli strati della cultura "popolare". Paradossalmente, Madame Tussaud, la fondatrice del museo delle cere di Londra, ormai con sedi in tutto il mondo, ha iniziato con un ritratto di Voltaire e creando calchi di cera tra i cadaveri delle vittime della Rivoluzione francese.

Von Schlosser sottolinea come la storia della ceroplastica trovi esito negli "automi". «Anche in questo caso si tratta, alla fin fine, di un'emanazione di quella primitiva visione demonica dell'opera d'arte che si esprime nell'intramontabile concetto popolare secondo cui il cui più grande merito dell'opera risiede nella sua vitalità». Ed ecco, aggiungiamo noi, che si arriva all'arte contemporanea e all'ennesimo "ricorso" della storia: basti pensare ad artisti come Duane Hanson o Roan Mueck, il primo celebre per le sculture, in vetroresina, iperrealistiche, nate da calchi - come nelle maschere funerarie di cui parla diffusa

gipoco.com is neither affiliated with the authors of this page nor responsible for its contents. This is a safe-cache copy of the original web site.