Il primato dell’uomo

1 Marzo 2012

spacer La visione antropologica e quindi etica che ha dato forma all’umanesimo europeo,  è quella personalista e comunitaria, vale a dire l’uomo è sì un individuo – anche una pietra o un albero sono individui – ma è un individuo personale; e questo non è un attributo pleonastico, ma lo differenzia dal resto del mondo. Infatti l’uomo  non è riducibile ad un grumo di materia, supera se stesso, la propria materialità, ad esempio grazie alla conoscenza che gli permette di vivere in faccia all’universo intero. Come scrive San Tommaso, gli permette di diventare, sul piano logico, tutto ciò che conosce. Ma la sua irriducibilità alla materia si rende visibile anche nell’esperienza dell’amore, della fedeltà che è, come affermava G. Marcel, una “cifra” di Dio stesso perché avvicina l’uomo all’eternità, cioè al per sempre. Ciò che di più profondo è l’uomo si rivela, potremmo dire si tocca, anche nel vedere che siamo capaci di vivere come un dono, uscendo cioè da noi stessi, dal nostro perimetro, per andare incontro ed accogliere l’altro mettendoci radicalmente in gioco. Tutto questo, ed altro ancora, ci attesta che l’uomo non può essere costretto al tempo e alla materia, ma è un paradosso posto su una zona di confine, fra terra e cielo, fra tempo ed eternità, tra finito e infinito, fra il nulla e il tutto.

La persona è un soggetto con alta densità relazionale, ed è vivendo il suo essere relazione che realizza se stesso. Ma relazione con chi? Con le cose materiali certamente, ma anche con gli altri per condividere e camminare insieme, per trovare quel completamento che, prima di essere funzionale (cioè necessario alla vita pratica) è di ordine spirituale e morale. Ma ciò non basta ancora, l’uomo ha bisogno di vivere in relazione con l’Assoluto, con la Trascendenza, con Dio: “Senza Dio l’uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 78). Il problema del fondamento di tutto ciò che esiste è ineludibile sul piano non solo teoretico, ma anche pratico: ciò che è fragile e relativo rimanda ad un fondamento assoluto che lo precede e lo giustifica nell’esserci, ma che anche dona direzione e senso.

Per queste ragioni l’uomo e il suo vero bene hanno un primato anche nell’attività economica come, più ampiamente, nell’organizzazione sociale e nella vita politica: “il primo capitale da salvaguardare e valorizzare – scrive Benedetto XVI – è l’uomo, la persona, nella sua integrità (…) Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo anelito ad ‘essere di più’ (…) Se l’uomo fosse solo frutto o del caso  o della necessità, oppure se dovesse ridurre le sue aspirazioni all’orizzonte ristretto delle situazioni in cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e l’uomo non avesse una natura destinata a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o di evoluzione, ma non di sviluppo (…) la questione sociale è diventata questione radicalmente antropologica” (Benedetto XVI, Enc .cit.  n.25, 29,75). La questione antropologica ci pone di fronte a quell’insieme di valori fondativi e irrinunciabili che costituiscono la cosiddetta “etica della vita” e che sono la vita dal concepimento fino al tramonto naturale, la famiglia formata da un uomo e una donna fondata sul matrimonio, la libertà di religione e di educazione. Tale complesso valoriale è come una radice che non può essere tagliata senza uccidere l’albero, e per questo non si possono negoziare. Nello stesso tempo, sono un ceppo sempre vivo che germoglia quei valori che costituiscono l’etica sociale nei suoi diversi aspetti. 

Card. Angelo Bagnasco – Londra, 29 febbraio 2012

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Il Vangelo oggi, dai tetti e nella rete

29 Febbraio 2012

spacer Guardare alla nuova evangelizzazione in una triplice prospettiva per “osare un nuovo inizio” è l’invito rivolto oggi da Thomas Söding, docente di Nuovo Testamento all’Università di Bochum (Germania) e membro della Commissione teologica internazionale, nel corso della prolusione tenuta in occasione del “Dies academicus” che ha inaugurato a Padova il settimo anno di attività della Facoltà teologica del Triveneto.

Colori, profumi e volti della fede. “Dopo duemila anni di cristianesimo – ha fatto notare Söding – il compito della missione rimane, e rimane anche il compito della catechesi”; oggi tuttavia viene riconosciuto “particolarmente urgente” anche il compito della nuova evangelizzazione “specialmente nelle metropoli del Nord e dell’Occidente, ma anche nelle campagne, ove si sta dissolvendo la tradizionale simbiosi tra cultura e religione” e “l’agnosticismo sembra convincere la maggioranza delle persone”. Nondimeno, anziché “lande desolate agli occhi della fede”, le società secolarizzate costituiscono “un campo” su cui seminare, a condizione che si guardi alla nuova evangelizzazione “in tre prospettive”. Si tratta “anzitutto del che cosa della fede; in secondo luogo del come della fede; si pone infine la questione del dove della fede”. È nota, ha osservato Söding, “la tensione che sussiste tra fides quae e fides qua; oggi bisogna però forse anche interrogarsi circa la fides quo. Il contenuto e la forma della fede vanno insieme; la fede necessita però anche di un luogo per potersi fare concreta”. Con riferimento a iniziative quali il “catechismo universale” della Chiesa cattolica presentato in diversi formati: enciclopedia, compendio e “breviario” per i giovani, lo “Youcat”, il teologo ha sottolineato che ai concetti e alle formulazioni, “che hanno tutto il loro significato dogmatico, devono aggiungersi anche le storie della fede, i colori e i profumi della liturgia, soprattutto i volti di quegli uomini e donne che s’impegnano per quella fede che senza di loro nemmeno esisterebbe”.

Una “rete” di storie. “Se la fides quae viene presentata in questo modo – ha aggiunto Söding –, allora è sin dall’inizio visibile l’intimo legame con la fides qua”. Per il teologo, “precetti e divieti convincono solo se diviene visibile il loro orientamento alla gioia di vivere che procede dalla fede, alla gioiosa serietà del gioco liturgico, al premio infinito promesso a quanti s’impegnano” per il Vangelo. Ciò presuppone a sua volta “testimoni viventi della fede”. La nuova evangelizzazione ha insomma “bisogno degli esempi positivi di quanti sono in grado di dimostrare come si possa scrutare nel cuore della vita grazie alla fiaccola del Vangelo”, ma ha anche bisogno degli esempi di “coloro che vogliono iniziare con la fede e compiono i primi passi, oppure ancora esitano” ma sono tuttavia “divenuti attenti, curiosi, vigilanti”. Di qui il suggerimento di “utilizzare Internet per creare una rete globale di storie simili da diverse regioni e culture”. “Non è forse il Vangelo stesso” una sorta di Facebook?

Cristianesino “urbano”. Alla terza domanda, quella circa il dove della fede, per Söding “è possibile dare una sola risposta: qui ed oggi”. La nuova evangelizzazione “ha prodotto una notevole serie di progetti di missione metropolitana: Colonia, Vienna, Parigi, Budapest, Dublino, Lisbona, Bruxelles, Liverpool, Varsavia, Torino e Barcellona. Ciò spinge a guardare al futuro, perché inizia proprio in Europa dove la secolarizzazione è più forte, ma la fede è più importante e l’attualità del Vangelo è somma”. “Il caso serio della fede – ha avvertito – si da sempre nell’oggi. E oggi la fede non viene solo ricevuta e trasmessa, bensì cercata e vissuta”. Per il teologo la città è “l’elisir vitale del cristianesimo primitivo e diventerà sempre più importante per la Chiesa”. Quale luogo della fede “la città risulta di particolare sfida e ispirazione, perché vi sta di casa la pluralità e la mobilità della modernità”. Il cristianesimo urbano deve però “determinare le forme della nuova evangelizzazione, i suoi mezzi e i suoi soggetti”.

Ali alla fede. Così intesa, ha assicurato Söding, la nuova evangelizzazione “non rappresenta solo un progetto di riforma della Chiesa, bensì del mondo. Se la nuova evangelizzazione riesce a fornire ali alla fede, allora ottiene il medesimo risultato anche per la solidarietà; se rafforza il senso dell’infinito, allora anche il senso per il finito, per ciò che va fatto in questa città”. Di qui l’invito a “osare un nuovo inizio”. Sul compito specifico e primario della teologia, “racchiuso nella funzione di ascoltare e interpretare la storia umana in rapporto alla rivelazione cristiana”, si è soffermato il preside della Facoltà, don Andrea Toniolo. “Il discernimento dei segni dei tempi – ha spiegato – non è un giudizio sulla storia dall’alto in nome della verità della fede, ma è capire che cosa la storia vuole dirci con tutte le sue attese e speranze, come con le sue ambivalenze”. A testimoniare senso e attualità della teologia è l’interesse degli studenti, nel presente anno accademico 2.670, di cui circa 2.200 laici. Per don Toniolo, nuova evangelizzazione significa “recepire a livello teologico e pastorale la novità del Concilio Vaticano II, soprattutto lo sguardo nuovo nei confronti del mondo”.

Sir, 29 febbraio 2012

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Italia, un Paese religioso con tante contraddizioni

28 Febbraio 2012

spacer Il tema della religiosità in Italia è uno dei capitoli del volume edito da Vita e Pensiero, «Uscire dalle crisi. I valori degli italiani alla prova», che raccoglie i risultati della ricer­ca sugli orientamenti di valore dei cittadini europei, condotta dall’European Values Studies (Evs). La parte italiana dell’indagine è stata curata dall’Università Cattolica che ha ottenuto dalla Cei un sostegno all’iniziativa e il suo inserimento nel progetto culturale del­la Chiesa italiana, e dall’Università di Trento. Il volume sarà presentato oggi alle 10 nel­l’aula Negri da Oleggio della Cattolica di Milano. La presentazione sarà presieduta dal cu­ratore, Giancarlo Rovati, docente di Sociologia generale in Cattolica. Seguiranno i saluti del prorettore vicario della Cattolica, Franco Anelli, e del presidente Commissione degli Episcopati della Comunità Europea, il vescovo Adriano H. Van Luyn, e gli interventi del vescovo di Piacenza-Bobbio, Gianni Ambrosio (presidente Commissione episcopale per l’educazione, la scuola, l’università); Ruud Luijkx, responsabile gruppo metodologico Evs; Antonio De Lillo, Università di Milano-Bicocca; Eugenia Scabini della Cattolica.

Credono in Dio, si ritengono religiosi, dan­no importanza alla fede nella loro vita, ma mettono in dubbio l’esistenza del­l’inferno, del paradiso e persino di una vita do­po la morte. È una fotografia con diverse con­traddizioni quella scattata dalla quarta indagi­ne sui valori degli europei, i cui risultati sono contenuti nel volume «Uscire dalle crisi. I valo­ri degli italiani alla prova» (edito da Vita e Pen­siero) curato dal sociologo Giancarlo Rovati do­cente dell’Università Cattolica. Uno dei capi­toli del libro, che sarà al centro del convegno di oggi, nella sede milanese dell’ateneo cattolico, è dedicato alla «realtà religiosa in Italia», affi­dando al professor Clemente Lanzetti, ordina­rio di Sociologia della religione all’Università Cattolica, l’analisi dei risultati.

«Attualmente il 78% della popolazione italiana maggiorenne – si legge – si riconosce nella fe­de cattolica e soltanto due italiani su cento si professano di altra religione». Un dato in leg­gero calo (-3,1%) rispetto a un’indagine con­dotta dieci anni prima, ma che farebbe inten­dere una consistente presenza di cattolici nel nostro Paese. L’uso del condizionale è però d’obbligo, soprattutto quando l’indagine af­fronta temi dottrinali, etici e morali legati alla fede cattolica. Si scopre, così, che se un confor­tante 59% degli italiani crede in «Dio persona­le e creatore che ama l’essere umano» (affer­mazione in linea con la fede cattolica), c’è un 24,6% per cui Dio è «qualche forma di spirito o forza vitale», mentre un 14,8% addirittura non sa ri­spondere.

Meno lusinghiero il risul­tato sul quesito «se esista o meno una sola religione vera», quella cattolica in particolare. Solo il 20,1% ri­sponde sì, a cui va aggiun­to un 26% che aggiunge che «anche le altre religio­ni contengono elementi di verità». A questo 46,1% si contrappone un 40,6% per il quale «non c’è una sola religione vera, ma tutte le grandi religioni contengono alcune verità fon­damentali ». Con molta probabilità, sottolinea la ricerca, quest’ultima risposta potrebbe na­scere dalla presenza di persone di altre religio­ni e della necessità di trovare con loro elemen­ti comuni per creare una comunità. Qualche sorpresa arriva anche dalle risposte ai quesiti su alcune verità di fede. Tra chi si defi­nisce genericamente religioso il 67,3% crede nell’esistenza della vita dopo la morte, mentre tra chi si dichiara praticante si arriva al 75,5%. Le cose non vanno meglio per paradiso e in­ferno: tra i praticanti ci credono rispettivamente il 70,5% e il 58,3%, mentre tra chi si dice religioso scendiamo al 60,6% e al 49,7%. Vi è addirittura un 17,1% di praticanti che crede nella reincarnazio­ne.

Insomma italiani religiosi, cattolici, ma con una fede che spesso diventa quasi individuale. «Questo pro­cesso – si sottolinea nella ricerca – non porta ne­cessariamente a posizioni di individualismo in campo religioso, né sta portando a una pro­gressiva irrilevanza della dimensione religiosa, ma a un diverso modo di rapportarsi a essa. Ba­sti pensare che, nonostante si registri un calo in percentuale negli ultimi dieci anni su molti indicatori di religiosità istituzionale, non risul­ta diminuire l’importanza che le persone dan­no alla religione nella propria vita»: il 32,8 ri­sponde «molto» e il 38,9» dice «abbastanza» per un totale di 71,7% degli intervistati. E anche sull’idea di una progressiva secolarizzazione dell’Italia, il rapporto invita alla cautela. «Gli i­taliani sono significativamente al di sotto del li­vello medio generale di secolarizzazione – si spiega ancora nella ricerca –, posizionandosi al 39° posto in una classifica di 48 Paesi analizza­ti ». Analoga situazione per quanto riguarda la partecipazione ai riti religiosi. «Una partecipa­zione che negli ultimi quarant’anni è pressochè stabile, oscillando attorno al 30%».

La stessa ricerca non trae conclusioni, anche se sottolinea come «quando si tratta di argo­menti religiosi, oggi molti preferiscono con­servare un atteggiamento di ‘ricerca’». Si trat­ta di «un cambiamento riconducibile al pro­cesso crescente di individualizzazione del cre­dere, che ha una pluralità di esiti in ambito re­ligioso, e che non coincide però con un gene­rale deprezzamento dei valori religiosi, spiri­tuali e morali». Con molta probabilità è il ter­reno da cui ripartire per una nuova evangeliz­zazione anche in Italia.

Enrico Lenzi – Avvenire, 28 febbraio 2012

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Non è solo un prodotto

27 Febbraio 2012

spacer Il Papa ha ricevuto, il 25 febbraio, i membri della Pontificia Accademia per la vita e ha rivolto loro un discorso di metodo, prima che di etica. “È mio desiderio – ha detto – incoraggiare l’onestà intellettuale del vostro lavoro, espressione di una scienza che mantiene desto il suo spirito di ricerca della verità, a servizio dell’autentico bene dell’uomo, e che evita il rischio di essere una pratica meramente funzionale”. In che cosa consiste il modo corretto di procedere, scelto dall’Accademia per la vita nell’affrontare il tema dell’infertilità umana? In un’impostazione che manifesta la fiducia della Chiesa nelle possibilità della ragione umana di osservare la natura e in un lavoro scientifico, rigorosamente condotto, che tengano sempre presente l’aspetto morale. Insomma, la Chiesa insiste sul fatto che la fede è amica della ragione e insieme, come alleate, possono giungere a un seria valutazione morale.

Il tema scelto quest’anno dall’Accademia è “Diagnosi e terapia dell’infertilità”: già di per sé possiede sia una rilevanza umana e sociale, sia un peculiare valore scientifico ed esprime la possibilità concreta di un fecondo dialogo tra dimensione etica e ricerca biomedica. L’alleanza di fede e ragione guida la ricerca biomedica, orientandola verso l’autentico bene per l’uomo. Nel concreto caso dell’infertilità di coppia esistono vie per una corretta valutazione diagnostica e una terapia che corregga le cause dell’infertilità. Altre vie non possono, invece, essere percorse. E queste sono note: le tecniche di fecondazione artificiale, che riducono la dignità umana e cristiana della procreazione a “prodotto”. Ora, invece, la procreazione umana ha un legame con l’atto coniugale, che è, al medesimo tempo, espressione dell’amore dei coniugi e della loro unione insieme fisica e anche spirituale.

È il costante insegnamento della Chiesa, espresso già dagli anni del Concilio. A metà anni Ottanta l’istruzione vaticana “Donum vitae” considerava l’intima connessione nell’atto coniugale tra aspetto unitivo e aspetto procreativo per valutare le tecniche artificiali e concludeva che esse non semplicemente separano i due aspetti, ma, addirittura, prescindono dall’atto coniugale, riducendo il concepito ad un prodotto di laboratorio. Ora, proprio la fede e la ragione valutano queste tecniche, senza cedere al facile fascino del progresso. Insieme smascherano quei risultati di una ragione, che è stata piegata alla logica del profitto o al delirio di sostituirsi al Creatore. Non si può infatti negare che, si sono impiegate somme ingenti per ottenere risultati modesti e molte frustrazioni.

A ben altri risultati si deve giungere per considerare adeguatamente le legittime aspirazioni genitoriali della coppia, che si trova in una condizione d’infertilità. La Chiesa, dal canto suo, presta molta attenzione alla sofferenza delle coppie con infertilità, ha cura di esse e, proprio per questo, incoraggia la ricerca medica. La scienza, tuttavia, non sempre è in grado di rispondere ai desideri di tante coppie. “Vorrei allora ricordare agli sposi che vivono la condizione dell’infertilità, che non per questo la loro vocazione matrimoniale viene frustrata”. I coniugi, per la loro stessa vocazione battesimale e matrimoniale, sono sempre chiamati a collaborare con Dio nella creazione di un’umanità nuova. La vocazione all’amore, infatti, è vocazione al dono di sé e questa è una possibilità che nessuna condizione organica può impedire. Dove, dunque, la scienza non trova una risposta, la risposta che dona luce viene da Cristo.

Detto questo, si registrano casi in cui la ricerca medica può realmente aiutare i coniugi a superare la condizione d’infertilità. Qui avviene qualcosa di grande, non solo perché si giunge al concepimento di un figlio, ma perché si recupera la fertilità. È un’altra grande differenza tra le tecniche artificiali e i mezzi di aiuto alla fertilità: la coppia che ricorre alle prime resta pur sempre nella condizione di sterilità. Non sono, pertanto, una terapia. I secondi mirano a restituire ai genitori il bene della fertilità e tutta la dignità di essere responsabili delle proprie scelte procreative, per essere collaboratori di Dio nella generazione di un nuovo essere umano. “La ricerca di una diagnosi e di una terapia rappresenta l’approccio scientificamente più corretto alla questione dell’infertilità, ma anche quello maggiormente rispettoso dell’umanità integrale dei soggetti coinvolti”. Infatti, l’unione dell’uomo e della donna in quella comunità di amore e di vita che è il matrimonio, “costituisce l’unico luogo degno per la chiamata all’esistenza di un nuovo essere umano, che è sempre un dono”.

Marco Doldi – Sir, 27 febbraio 2012

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