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Israele e Iran, come fermare la guerra
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Piergiorgio Cattani
Lunedì, 12 Marzo 2012
Iran, abbracci e sguardi torvi – Foto: enduringamerica.com
Nella ormai annosa vicenda del nucleare iraniano siamo ormai abituati a questo scenario: irresponsabili e violente dichiarazioni del regime islamico dell’Iran che minaccia la distruzione di Israele e nega la Shoà; ventilati piani di attacco israeliani sempre pronti a concretizzarsi ma poi congelati in attesa di tempi migliori o del momento giusto; ambiguità americane che alternano carota e bastone sia con l’arcinemico Iran sia con l’alleato Israele; sanzioni da parte occidentale boicottate da Cina e Russia. La situazione è dunque bloccata mentre i mesi passano. Il quadro internazionale non aiuta. Gli Stati Uniti sono alle prese con le elezioni, Putin deve mostrare i muscoli, la Cina ha un’altra agenda, quasi che ritenesse la situazione medio orientale destinata a una perpetua instabilità e a un inevitabile stallo. Tutti sono fermi, meno che il timer dell’atomica iraniana. È illusorio pensare che gli ayatollah non abbiano questo obiettivo. Con questo occorre fare i conti.
Da parte israeliana ciò che ferma l’attacco sono motivazioni esclusivamente militari. Certamente in questi frangenti non si sa mai dove finisce la propaganda. Ma fonti indipendenti concordano: soltanto gli Stati Uniti hanno la potenza di fuoco per compiere la missione voluta da Israele. Per quest’anno però questa possibilità è esclusa. Troppe spese, e poi ci sono le elezioni presidenziali. Ciò non toglie che sia in atto una pericolosa concentrazione di portaerei, sommergibili e mezzi militari intorno al golfo Persico: non si sa mai che cosa possa succedere, meglio tenersi pronti.
Lo Stato ebraico è diviso al proprio interno con l’ex capo dei servizi segreti del Mossad contrario alla guerra, con il primo ministro Netanyahu che rilascia ogni giorno dichiarazioni bellicose, e soprattutto con l’apparato militare del paese che sembra più interessato ad oliare meccanismi di difesa (come vari sistemi antimissile) forse per prepararsi al conflitto, forse per evidenziare la propria superiorità. Tutto questo mentre si riaccende la violenza intorno a Gaza.
L’Iran invece deve fare anch’esso i conti con dissidi interni. La sostanza del regime comunque è sulla stessa linea della Guida suprema Khamenei che, almeno per quanto riguarda il nucleare, si distingue dal presidente Ahmadinejad per il fatto che il primo porta una tunica, l’altro una goffa giacca. Il risultato delle elezioni amministrative cambia poco nello scacchiere internazionale. Il gioco iraniano è sottile e spregiudicato, non cercando per nulla di sgombrare il campo da un possibile conflitto armato, ma ritenendo che esso non verrà mai iniziato.
Pochi parlano in realtà di soluzioni alternative alla guerra. In un editoriale di Johan Galtung, riportato da Unimondo, si lancia l’idea di una grande Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione nel Medio e Vicino Oriente, unica alternativa a una crescente tensione. Il punto fondamentale sarebbe la creazione di una zona denuclearizzata. Nessuno però pare insistere su questo.
I movimenti pacifisti si trovano in difficoltà di fronte alla situazione. Certo il riflesso incondizionato, ma anche l’analisi più semplice, porterebbe a dare tutta la colpa a Israele. In realtà nessuno è capace di dare soluzioni operative. Occorre però almeno cercare di capire. Abbiamo visto con la guerra in Iraq che i cortei pacifisti occidentali non fermano gli eserciti. Sono le pressioni interne a poter cambiare le cose. Soltanto un evolversi positivo delle rivolte arabe può contagiare la regione e distogliere l’Iran dal dotarsi di un arsenale nucleare.
In questo senso va l’analisi di Paola Caridi, che tra l’altro scrive: “Per gli israeliani, fermare l’Iran – ora – significa conservare un primato in Medio Oriente. Nonostante le rivoluzioni arabe del 2011, nonostante il ruolo sempre più importante della Turchia, nonostante (o forse proprio per) la prossima fine ingloriosa di Bashar el Assad, Israele vuole impedire una nuova balance of power con potenze regionali che rivendicano il proprio indiscutibile ruolo geopolitico nell’area.
Per gli americani, ridurre l’influenza iraniana vuol dire sperare che quel singolare equilibrio ‘squilibrato’ che regna in quell’area compresa tra l’Iraq e l’Afghanistan non venga rotto da una ricomposizione degli equilibri tra le potenze regionali.
Per gli egiziani, i sauditi, gli emirati del Golfo, la battaglia contro il nucleare iraniano vuol dire spostare l’attenzione dalle richieste ineludibili di democratizzazione verso gli equilibri tra i governi dell’area, e dunque rinviare l’inevitabile scontro interno tra i regimi e i propri cittadini.
Persino per i palestinesi, impegnati in un lento e farraginoso processo di riunificazione politica, il fatto che il cosiddetto ‘processo di pace’ sia stato messo in un cassetto consente alle èlite politiche di concentrarsi proprio sugli equilibri interni, e sulla ricomposizione del potere”.
Una visione originale e da approfondire, che comunque lega inscindibilmente le rivolte arabe con l’Iran. Una guerra estesa soffocherebbe sul nascere ogni possibilità di un’evoluzione democratica delle primavere dell’anno scorso. Viceversa un sostegno a queste istanze significherebbe allontanare il conflitto. Occorre lanciare una campagna che unisca Europa, Occidente, mondo arabo e che dica no al nucleare iraniano, sì al disarmo concordato, sì alla libertà e alla democrazia. Solo un grande esempio di diplomazia dal basso potrebbe invertire una rotta già segnata. L'Italia si candidi per aprire un tavolo. Monti dia la delega politica a qualche ministro, magari Riccardi. Urge politica.... Non solo economia.
Piergiorgio Cattani